FAGLIE
di Stefano Semeraro
Questo numero di Versodove esce dalla tipografia in giornate dolorose e rabbiose, nelle quali la sepoltura dei morti del terremoto sull’Appennino si sovrappone alle prime istanze, alle prime idee di ricostruzione. Con il timore di farlo di nuovo in maniera sbagliata, in luoghi inadatti, con materiali insufficienti. Si ricostruisce sempre e comunque sopra e dopo un disastro, veloce o lento che sia, nello stacco che si apre fra tempo geologico e cinematica della catastrofe.
La parola che la nostra generazione e quelle successive hanno imparato a ascoltare con sospetto, dal Belice al Friuli, dallIrpina allEmilia Romagna allAquila, ma anche nella finzione parascientifica di certi film catastrofici americani, è: faglia. Il punto di discontinuità, il confine lungo il quale si separano e si contorcono parti diverse di una stessa crisi, di un movimento comune. È stato pensando al terremoto, al suo rituale di sofferenza che abbiamo capito che anche le prossime pagine si agitano su una faglia incerta, in perenne definizione, pronta a divaricare le nostre opinioni con percorsi che occupano secoli o secondi a separarsi o a inabissarsi luno sotto laltro, luno dentro laltro. È la faglia del linguaggio, anzi dei linguaggi, che insieme definiscono e faticano a fare presa sul terreno su cui sono depositati, stratificati. Il linguaggio critico che decenni fa pareva più o meno solidamente fondato, e che da tempo ce ne parla Cecilia Bello in una lunga intervista che vorremmo fosse la prima a studiosi che come lei sperimentano lo iato fra accademia e militanza sta sprofondando in un bradisismo silenzioso, grazie alle opposte e parallele tellurie di internet e del marketing editoriale. Il destino dellurbanistica, le alienazioni della Archiscultura, di cui parla Antonio Clemente, più che una faccenda di fogli di progettazione sono questione lessicale, di parole che vengono prima, pre-vedono il disegno. I terremoti che sconvolgono chi si occupa di questi argomenti sono per fortuna sintattici, non apocalittici, ma è comunque difficile, impossibile ricostruire unidea di nazione, di convivenza civile, senza interrogarsi senza ingenuità criticamente – su cosa significano le parole che pronunciamo e leggiamo. Su come possono essere descritti, quindi compresi, i tempi che viviamo. In apertura trovate un testo feroce e splendido di Heiner Müller, magistralmente introdotto da Anna Ruchat, che vive proprio sulla faglia fra epoche e utopie diverse, diversamente terrorizzanti, che si trasformano in un cataclisma dellidea di paternità reale e ideale. In chiusura abbiamo collocato un testo provocatorio, ironico e profondo come quello di Jonny Costantino, che sfida la categoria scivolosissima del politicamente corretto per parlare dei generi e insieme del gender in letteratura.
Ma quasi tutti i testi che presentiamo in questo numero, dalle poesie (Nadiani, De Alberti, Schiavone, De Marco, Munaro, Debiase) alle traduzioni (Dimitriadis, Roubaud, Ivanescu, Siméon), ai testi in prosa (Fiorletta, Venerandi, Thies) ci parlano comunque in equilibrio da questa faglia che ci percorre ogni giorno, che ci smonta e ci ricostruisce. E di come si debba sempre partire/ripartire da un rottame, da un dettaglio, per farsi unidea meno piatta del mondo, ce lo spiegano anche i testi di Klaus Johannes Thies, eroe frammentario tradotto (e introdotto) per noi dall’amico Giovanni Nadiani, poeta, traduttore, fondatore di una rivista fondamentale come Tratti. Con Giovanni abbiamo dialogato spesso in questi venti anni, e avremmo voluto continuare a farlo ancora a lungo. Ce lha rubato ad agosto una faglia oscura, definitiva, come era accaduto improvvisamente un anno fa con Guido Leotta, altra anima di Tratti, e da pochissimi giorni con Tommaso Labranca, ironico e lucido saggista del trash. Ma anche da quel territorio scosceso e impenetrabile arriva il suono luminoso della sua, della loro intelligenza. Di una visione e acutezza critica che sapeva, fra i mille crolli del quotidiano, addomesticare la crisi proprio guardandola senza paura.
PS: Un grazie particolare per questo numero va a Melchiorre Di Giacomo, grande amico e fotografo italoamericano i cui lavori sono stati esposti anche al MoMa di New York. A chi volesse approfondire la conoscenza del suo lavoro suggeriamo il link del suo sito internet http://meldigiacomo.photoshelter.com/