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Cosimo Ortesta. Esatte menzogne e lingua omicida, di Vito Bonito

L’esordio poetico di Cosimo Ortesta è da collocare nel 1975 su «Carte segrete», e poi nel 1977, quando apparve nei «Quaderni della Fenice», diretti da Giovanni Raboni, un poemetto intitolato La passione della biografia, poi confluito nel volume Il bagno degli occhi (1980). Queste prime prove si inseriscono in quel clima della poesia che, tra gli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 del secolo scorso, cerca nella parola una possibilità di fissare il proprio spazio d’azione lungo il margine esilissimo di un accadere cieco e senza direzione del senso. Chiuso nei frammenti di un linguaggio disgregato, il soggetto linguistico appare sempre più decapitato negli organi. La percezione di un corpo in frantumi., pertanto, non può che essere brulicante e ferita, e il linguaggio che la sostiene smembrato in fosforescenze sillabiche, bagliori psichici, pulsioni mnestiche – giocate tra Mallarmé e Artaud (proprio sulla scorta di Zanzotto), senza tralasciare l’esperienza dei poeti di «Tel Quel».

Visione e frattura della visione, parola e frattura della parola, luce e cecità, gelo e ombra costruiscono il campo tematico entro cui si muove la trama del Bagno degli occhi. La dura trasparenza dell’occhio è sintomo di una percezione bloccata, indurita nel «gelo» che la circonda. I perimetri dell’esistenza e del quotidiano sono serrati in una luce immobile, e resi estranei al fluire del tempo, quasi fossili che emergono da un tempo memoriale.

In sembianza di trattatello filosofico, La passione della biografia appare subito essere il nucleo propulsivo dell’intero libro. Nella lenta pulsazione della materia verbale da cui affiorano i residui più atroci e profondi di un soggetto imbozzolato tra le pieghe della propria mente, la prosa poematica di Ortesta avviene nell’universo recluso del proprio carcere corporeo; qui la voce adempie ancora all’imperativo del «conosci te stesso», ma attraverso la decomposizione verticale del proprio statuto biologico (così come gli aveva insegnato il barocco Giacomo Lubrano, mallarmeano ante litteram.) Gettata in un deserto saturo di visioni squarciate, la biografia appare come un’operazione ininterrotta che rinuncia a un fine a lei esterno. Chiusa, blindata in sé, la scrittura procede in una vertigine metonimica che accresce l’impulso centripeto della sintassi poetica e di fatto colpisce, sfigurandolo, il sistema delle immagini, fino a dare luogo a un movimento senza requie di riverberi verbali incisi nella geologia invisibile della mente. La parola a questo punto abbandona il suo tenore analogico, annulla lo scarto metaforico; è corpo per se stessa, ’cosa’ esposta alla passione della scrittura e al suo duplice genitivo.

Inscritto nella voce, il soggetto muta di continuo la posizione dello sguardo, e il linguaggio diviene corpo instabile, luogo dell’altrove, contrazione fredda di un gesto poetico che scavalca la ferita ermetica, il dono dell’analogia tanto quanto la misurazione quotidiana del reale.

L’argomento della sequenza è la possibilità oggettiva e soggettiva di una passione biografica. E la parola è l’unica condizione che può realizzare questa passione, ma è anche strumento feroce di abrasione del referto vitale. La necessità di usare il linguaggio per raccontare la trama biologica di una forma schiacciata tra grumi di percezioni fa di quel linguaggio l’argomento del racconto. La biografia viene così cancellata a vantaggio della passione, oltranza lucida e graffiata della sofferenza come unico sentiero percorribile dell’esperienza.

Con La nera costanza (1985) i temi presenti nel primo libro trovano un’elaborazione più preziosa. Alla Passione della biografia non è possibile non legare un testo come Il margine dei fossili, in cui il poeta (addentrandosi anche in un libro affascinante come I Segni del tempo di Paolo Rossi) penetra le venature dei fossili come i segni di una biografia. Ma la visione ancora una volta è ferita, lesa («quasi incerti/ i fossili verso il margine del bosco/ meno denso/ contro cui deboli perdendosi/ gli occhi si rompono»), quasi a evocare uno spazio luttuoso e pietrificato in cui il soggetto cerca di orientarsi.

Il poemetto fossile, così, fin dall’incipit in tonalità biblica («le acque provenienti dagli abissi si congiunsero a quelle»), rivela lo spalancarsi degli eventi di fronte a un mondo attonito e muto, che resta sommerso nel proprio involucro enigmatico. E l’occhio e la parola devono ancora una volta svelarne il «margine» remoto e misterico, lambendone i limiti con uno sguardo ravvicinato e teso ad annullare l’insieme per cogliere la fuga dei segni, le scaglie mnestiche di una vita rafferma e paralizzata. Scrivere allora è toccare i limiti del corpo. La traccia fossile è scrittura del corpo in assenza, così come la scrittura lambisce l’incorporeo del senso con la physis del significante e del suo fragile confine. Ecco perché la parola di Ortesta penetra le venature dei fossili come i segni di una biografia. Le impronte che furono corpi ora sono assenze segnate e la parola e l’occhio sono pertanto costretti a percorrerne la traccia evanescente.

La biografia della «pietra scritta», per dirla con Bonnefoy, è soffio di una festa di carne e sangue – unico viaggio dentro la morte: «è vietato spezzare le ossa di cui/ si è mangiata la carne/ sgozzata la sera:/ bersagliate e legate le vidi/ le une accostarsi alle altre/ in festa echeggiante. Su di esse muscoli e fiotti fiorivano».

Il corpo si dà nel luogo estremo del suo ritrarsi. Lo spazio che resta come forma abbandonata e intatta è luogo alla poesia, ritmo tra le piaghe biologiche dell’assenza. La modulazione del disastro si costruisce sui fregi di una materia inerte pronta ad accogliere ogni immagine e a restituirla nella cadenza di un tempo senza presenza, fermato nel disegno lapidario di una morte scritta e donata allo sguardo.

D’altronde la morte e il morire sono la cadenza da cui principia La nera costanza. L’intero volume è permeato da una «luce/ che è quasi morta», che scende sincopata tra la fessure della mente e col suo gelo ne illumina il racconto e il respiro. Lo svelamento dello spazio-tempo della morte comporta anche un richiudersi dei perimetri: luoghi circondati, sempre più internati delimitano le dimensioni dell’accadere. Ogni direzione sembra portarsi verso un centro invisibile, la scrittura si racchiude in pieghe convergenti, trattenuta nel «cavo» oscuro di una «pupilla» rivolta verso ciò che, remoto, resiste al di qua della parola.

L’andatura ritmica, così gestuale e come raggelata nelle sue pause concentriche, traduce il collasso spazio-temporale verso un punto-istante in cui non c’è rifugio, quasi in allusione a un «vedere senza luogo […] in un distacco totale». E la proliferazione delle forme indica forse lo scacco di chi non può vivere senza luogo o durata, in una purezza che non fa parte dell’esistenza. L’al di qua della poesia non si riscatta. La sua ‘allegoria’ verbale si distrugge nel divenire senza direzione, vorticoso e sradicato, di una perdita che non sorregge gli eventi, e quanto più si fa concreta nei corpi e nelle percezioni incarnate delle immagini, tanto più si disgrega nel tempo neutro della mente dove figure e forme sono soltanto trasparenze metamorfiche tese alla dissoluzione. La luce-gelo filtra nei solchi, nelle lacerazioni, e varia la sua «angolazione», il suo stato materiale: si fa latte, occhio, lenzuolo, nuvola, neve, denti, cristallo, linfa, piaga, lampo, bagliore, albore, inverno.

L’impianto della terza raccolta di Ortesta, Nel progetto di un freddo perenne (1988), mostra già nel titolo e nella dimensione progettante del freddo una forte continuità tematica con le opere precedenti. Il ritmo di questa raccolta, però, si apre a un movimento narrativo più esplicito, a volte sorretto da lacerti dialogati, sebbene sospesi in una sorta di tempo distante e irrecuperabile, scandito da un reciproco allontanarsi di voci abbandonate a sé stesse. Ed è proprio l’inseguirsi sbandato di questo recitativo, quasi in una partitura da melodramma, una delle tonalità dominanti del libro, che trasforma il Progetto di un freddo perenne in un «poema di amore e dolore, di “strage” e tenerezza», come ha scritto Giovanni Giudici. Il tempo ferito dell’esperienza trova così il suo racconto nel contrappunto di due voci che comunque parlano «di un dolore reale», ma restano «un altro io un altro tu a dirsi addio».

La narratività ‘dispettosa’ che cuce l’andatura poematica del «progetto di un freddo perenne» si incrina nelle forme rabbrividite di un movimento concentrico. Ogni gesto e ogni percezione appaiono distorte nella nudità con cui si avvicinano a si ritraggono dall’esperienza. La misure spaziate e talvolta prosastiche di certa poesia anglosassone (da Frost a Stevens, da Auden a Ashbery) vengono beckettianamente sfigurate mediante abbaglianti accostamenti ritmici che afferrano il lato terribile ed esatto delle pulsazioni verbali. La voce punta il proprio sguardo sugli spasmi più sottili e violenti della mente e li asciuga nel respiro di una parola assiderata.

È un occhio che si avvicina ancora inesorabilmente al richiamo delle cose, e muove le proprie cadenze percettive nel tempo paralizzato di uno sguardo che spezza ogni diaframma illusivo di compassione, restituendo le forme in una continuità percossa, recisa, privata di ogni orientamento se non quello, decisivo per questo libro, di una «distanza» che separa le «persone» senza volto: agenti di un racconto dove «le curve, i contorni, non tengono più l’intera storia».

Nella cifra di un «fermo splendore», stilema di un paesaggio del gelo, la modulazione delle voci viene dal vuoto e appare sillabata in un teatro senza corpi, in un ordine senza sintassi: voci da un altrove irrompono da una distanza inerte, «in posa», verso cui nessuno si muove, ma viene «attirato oscuramente», in un viaggio senza orientamento. Voci che si urtano e si confondono, perdute e riemerse da un tempo senza transito, recluso in un presente entro cui giorno e notte, gelo e oscurità, visione e accecamento sono vicende di una mente che si raccoglie dentro di sé, in una fuga di «stanze a memoria» da cui non è possibile uscire, in una distanza assoluta non più colmabile, neanche con la parola: «La via d’uscita è la distanza che li separa: / lui si tenne sveglio nello stesso clima, ora non più, / nutrito quasi lavato dal buco che ha lasciato / per accostarsi a ciò che fu dimenticato / ora sorpreso guardando fuori / in questa altra stanza».

Contemporaneamente all’autoantologia (certamente decisiva anche per l’ultimo libro del poeta) Una piega meraviglia esce Serraglio primaverile (1999). Il libro rappresenta, in un certo senso, una sorta di disgelo esistenziale e poetico perché la primavera diviene misura interiore di uno sguardo che può restituire le ombre ai corpi, e interrogare nuovamente l’esperienza in una «nuda fraterna lingua».

Per spostamenti verticali, la scrittura si distende in minime pulsazioni, in una dizione che cerca sempre più l’incanto del fuori, l’apertura notturna della voce. Il clima si costruisce ancora tra «ventre» e «mente», tra memoria e ombra, luoghi spogliati e «radicali» della physis poetica, in cui «cresce / nuda fraterna lingua / contro l’esperienza del giorno». La «celeste reclusione» del soggetto-persona si dilata ora nel «campo azzurro» e la pioggia roteando «fa notte estiva» in una perfezione di sonno e ferite. La voce recitante è quella ormai esplicitata «di bambino / che assiste al suo stupore». Lo sguardo è «una piega meraviglia» in cui si affaccia una dimensione intrasoggettiva della voce e la primavera diviene misura interiore di uno sguardo che può restituire le ombre ai corpi, ombre opaline, velate dallo stupore di una nuova interrogazione. La tonalità estatica della domanda poetica agisce tuttavia in un teatro notturno, rinnovando la visione, il firmamento dello sguardo. Scorta di questa nuova geografia poetica è certamente una linea che vede in Leopardi e Bertolucci le figure forti gli attori non feriali di un’esperienza verbale antiidillica, tesa a vivificare il legame tra physis e poiesis verso un divenire inatteso della grazia e dell’orrore. Il tempo della parola si fa tempo nella parola, quanto più nello stupore si espone alla propria finitudine. La meraviglia sta in uno sguardo verbale che «non è la voce di un bambino», ma «una voce di bambino». Non l’innocenza dunque, ma l’infanzia – «nudità che parla» libera e fredda, mentre si avvolge sul proprio destino come «stella su stella fino alla stella del mattino».

La variazione stilistica sta ancora nel minimo scarto di una voce inattesa – fragile quanto incisa nella nudità di una conoscenza poetica assai più libera nella sintassi metrica, in un pensiero che si apre al ritmo sospeso di un dialogo con l’«immagine», «immagine e non persona», «immagine di persona»: quasi come nei leopardiani Il primo amore e Il pensiero dominante – che, oltre il codice petrarchesco di un’assenza procurata, di una ricordanza malinconica, hanno reso viva e irreparabile l’acustica di una drammaturgia della distanza.

È una notte chiara, un chiaro di stelle e una luna «quietissima»: un dono di fragilità abita la mente e l’ombra, interroga le morte speranze, come una vecchiezza che – al pari dell’infanzia – «vuole indifesa ascoltare / il crepitio della nostra carne».

L’ultimo libro, La passione della biografia (2006) è davvero l’«autoritratto in uno specchio convesso» di Ortesta. Un libro anamorfico, in cui si affiancano testi dei libri precedenti («con frequenti variazioni») a poesie inedite o pubblicate solo in rivista: quasi a voler chiudere un trentennio di scrittura in un solo respiro. Il disegno è chiaro: sta nello sguardo di chi accede alla parte terminale della propria esperienza esistenziale e poetica. Clausola di un progetto che paradossalmente non vuole chiudersi con uno schianto né con un lamento: «dicono che bisogna finire / come in una cadenza / ma si può anche concludere / facendone a meno».

Nel poemetto Céleste, è Proust a fare da immagine trasfigurata del poeta blindato nella camera oscura della propria mente. In questa stanza della tortura, «la passione della biografia» tocca il suo punto estremo: si è di fronte a se stessi, faccia a faccia per speculum: ma spogliati di ogni ‘salvezza’, di ogni redenzione – accettando un presente di sé e della propria poesia mutilato, fossile, scarnificato, fino a intravvedere «l’abisso sotteso alla scrittura», «la vita silenziosa delle cose / che lo guardano morire».

Come in una definitiva Stilleben, la passione della biografia si ’riduce’ implacabilmente a una sorta di prosa epigrammatica («Dimenticava ogni giorno qualcosa della propria lingua / finché rimase muto»), in cui tuttavia è possibile percepire, consapevolmente ferita, la luce ferma, vitrea, vermeeriana della propria lingua poetica e del suo oblio.

La scrittura del bios è la passione della scrittura («la passione della biografia è questo: lasciarsi attraversare dalla scrittura che nasce dalle proprie viscere e dal proprio cervello»).

Ciò che resta è un intervallo tra viscere e cervello, mente e ventre (per stare alle parole del poeta), una sorta di martirio che davvero è testimonianza e strazio, una suprema finzione in cui la lingua si dà nell’agonia della parola: una parola senza più nessuno, senza più luogo. Un rito in cui la poesia si dà a morire, mantiene la sua promessa, tiene in mano il coltello e lo stilo: «testimone di questo incerto rito / è la mano che scrive esatte menzogne / della lingua omicida».

Non più tra pathos ed esperienza, ma dove si consuma l’esperienza del patire come ascolto di un naufragio: dove l’assenza, la fine e il silenzio si fanno più luminosa consapevolezza e ogni resistenza si lascia annegare nella suprema finzione, separandosi da lei «– e per sempre – / senza poterle dire addio» .

Cosimo Ortesta (Taranto, 1939 – Roma, 2019).

Su «Carte segrete», nel 1975 esce La passione della biografia, poi ripubblicato nei «Quaderni della Fenice» (Parma, Guanda, 1977) e ancora nel volume Il bagno degli occhi (Milano, Società di poesia, 1980) con cui vince il Premio Viareggio opera prima 1980. A seguire La nera costanza (Palermo, Acquario-La nuova Guanda, 1985), Premio Pozzale Luigi Russo 1986. Del 1988 è Nel progetto di un freddo perenne (Torino, Einaudi), Serraglio primaverile esce nel 1999 (Roma, Empirìa). La passione della biografia, ultimo libro pubblicato, è del 2006 (Roma, Donzelli). L’autoantologia Una piega meraviglia (Verona, Anterem) è l’esito del Premio Lorenzo Montano “Opere scelte” (1999). Assai importanti sono le sue traduzioni, tra gli altri, di Mallarmé, Rimbaud, Baudelaire, Char. Ha curato Carlo Pariani, Vita non romanzata di Dino Campana, Milano, Guanda, 1978.

Antologia di testi

da La passione della biografia in Il bagno degli occhi (1980); poi in La passione della biografia, Roma, Donzelli, 2006

Vuole buone metafore si stacca dagli impulsi distende un lato e l’altro s’arresta nei prospetti scende il corpo vuole la mano si lascia correre tenta il contrappunto ricomincia dietro diminuisce conta una voce o altro si disturba s’allarga insiste si sposta si drizza per potersi calcolare chiara fino a toccare
conta il profilo con gli occhi non avanza è fitto già dietro sottomessa a foglie si piega. La fuga calma le inflessioni. Perde traccia s’inoltra.

*

Passa senza immagine l’immagine, il membro staccato, illinguaggio di superficie senza terrore del nuovo orifizio: perdita della scrittura da cui trasuda lei che non tollera la perdita, che si dimentichi come ha voluto patirla prima di scriverla.

*

In tutto lo stesso grado di presenza. Sottomessa alla quantità del corpo ma dietro il cuore, superficie muscolata dentro/fuori questo libro si perde con precauzione.

*

La passione della biografia decapitata negli organi e dove nel prolungamento si tiene avrebbe preferito essere seppellita e riunita. Lasciata sparsa poggia sui tasti e trema con scatti dall’interno all’esterno, condensazione, spostamento
separazione ricade né prima né dopo, altrove (qui) si ristabilisce senza le dita per funzionamento di verghe accostate di intervalli nella cappa gialla nella curva che discende al risveglio e non rimane chinata.
Impedita d’impedimenti di scatti all’idea del movimento.

Il margine dei fossili in La nera costanza (Palermo, Acquario-La nuova Guanda,1985); poi in La passione della biografia, Roma, Donzelli, 2006

I
le acque provenienti dagli abissi si congiunsero a quelle,
dando luogo a crolli e al conseguente…
inondazioni derivarono e sedimenti
nel ripetersi della sovrapposizione. Non tutte le pietre
ma solo massi spezzati stettero alla base.

II
nell’ardesia si vedevano di frequente
forme di pesci esattamente come fra le mani
bocche si scolpiscono aperte nelle impronte schiacciate

III
è chiaro che i pesci dello stesso stagno
da un’unica massa sono stati schiacciati.
Le impronte dei pesci provengono dunque
da veri pesci.

IV
ossa raggruppate e disposte lungo la roccia
in piccole o grandi nicchie naturali
dal 1923 al 1925, senza mandibole,
numerose fra i crani a m. 1,20 dal suolo
orientate da est a ovest

V
per questa ragione il cranio e le ossa lunghe
sulle alture o su rami non portano
con sé
ogni mutamento di sede

VI
tranquilli nei giorni più frequenti
nella calma che preme al di qua
dei successivi movimenti, quasi incerti
i fossili verso il margine del bosco
meno denso
contro cui deboli perdendosi
gli occhi si rompono

VII
evitando che le ossa
siano dai cani divorate
ricoperte nuovamente di carne
di un giovane orso bruno,
gli si tagliano canini e incisivi
con sega sottile

VIII
è vietato spezzare le ossa di cui
si è mangiata la carne
sgozzata la sera:
bersagliate e legate le vidi
le une accostarsi alle altre
in festa echeggiante.
Su di essa muscoli e fiotti
fiorivano

IX
questi depositi, offerte di primizie
abbattute presso popolazioni artiche
resti di animale
nella limpida traccia del dio caduto
fra il cacciatore e la preda

X
su una placca di ardesia incisa
si distingue avvolto in una pelle
con coda di cavallo e corna
di cervo sulla testa
che finisce a becco

XI
i suoi vicini di parete
sono l’uomo e il rinoceronte
la testa è priva di lineamenti
ma il ventre
si affaccia a proteggere

da Nel progetto di un freddo perenne, Torino Einaudi, 1988

Ma se lei perdesse la testa e scoppiando
in un oceano di piume a due a due
un altro io un altro tu a dirsi addio
ancora forti ma sempre più inesperti
ritornando all’addio ci sarebbe la voce
nel centro della paura

*

Nel progetto di un freddo perenne
lenimento si sveglia inerme
a severa distanza un lamento all’orecchio.
Tra le crepe nel suo stesso odore
ancora cresce illusione non desiderata
dentro un cerchio antico di due forme una forma
che accresciuta non grida non vuole
venire fuori
lì per un accesso di dolore
inosservata chiedendo più attenzione
a eccesso di colore.

*

Forma una seconda nebbia
intonando ancora potenti
e nere pause più che sua vera voce
nell’ottusa consonanza al tuo tepore.
è rotta voce che le ore notturne
sommesse ti consente
ma tanto gravi e scure
che in pieno giorno
non s’interrompe il silenzio.

*

Scura e gelosa la notte dentro gli occhi cresce
poi quando il giorno vive -bianca veramente-
al riparo d’ogni creatura prima che sia amata
va pensando di sé, del suo vivere di prima
e bianca veramente così com’essa è
nel giorno perde il suo tempo.

*

Trasfòrmati in parole:
senza più compagnia di fiati e di viole
facendo posto alla tua vita
la mia più niente ha a che fare
con gli anni
se correndo intorno a un solo nome
è sempre di te e di me che si tratta
e sempre le stesse armi
potenti di lutto e afflizione
che pure nei sogni a rovina
inseguono la mia levigatezza.
Ti vedo sui tuoi passi tornare ancora
più sottili le braccia già esitanti le gambe
nel tempo lentissimo della paura

Da Serraglio Primaverile, Roma, Empirìa 1999

L’ombra di un mondo esterno si avvicina
radice che dal ventre e dalla mente cressce
nuda fraterna lingua
contro l’esperienza del giorno.
Le sue costellazioni luminose e fredde
sono presaio di amori incerti
di fiocchi di neve, bufere incandescenti,
e al centro del campo azzurro la pioggia roteando
fa notte estiva, quiete e calma,
in cui si chiude assonnata e ferita
un’altra perfezione.

*

Oggi ha un nome diverso ma è lei
non ha dimenticato la sua origine
senza uno scopo senza desideri
sta nel cuore della luce
ingombra di erba nera.

Dillo, stanno umiliando le tue
calme ali mostruose
e dall’alto una schiuma nebbia
si riversa soffice lingua comune.

*

Scrivere dentro un mondo oscuro
o guadagnare l’aria e la luce
ripetere una canzone, notturno uccello
sopra i rami d’insonnia.
Quale il conforto?
Un’eco un fantasma
si offrono all’ascolto di chi
non dorme per paura e lascivia di pensieri
che piano piano gli consumano le ossa
e lo riducono infine alla ragione

adesso scrive dentro un mondo cieco
e un vento irrompe come fiamma
e scaccia la preda dalla tana
e il lume si rabbuia scappano i gatti
nessuno fiata e niente si rischiara.

*

Stella

Giusta e desiderata invecchiando
altra speranza non c’è
se non proprio questa che muore
e viene sepolta
nel battito minaccioso del cuore
nel flusso mutevole del sangue
nel riverbero nell’improvvisa inclinazione
dello spazio che annega tranquillamente
senza badare alla terra e alle sue forme.

Stella su stella fino alla stella del mattino
illumina questa nudità che parla
libera e fredda incrostata d’oro
e di sapori densi nel buio pungente
tutt’intorno ombra su ombra
immagine e non persona. Immagine
di persona umanamente desiderata ma non amata.

Céleste in La passione della biografia, Roma, Donzelli, 2006

Tre tavolini accanto al letto di ottone
… i quaderni, le medicine. Marcel sapeva bene
che questa non era la sua vera casa :
dall’altra parte del tempo vedeva scorrere
una terra sconosciuta.
A settant’anni forse gli altri
l’avrebbero accolto ma intanto la malattia
faceva la sua strada, induriva i polmoni, logorava il cuore.
Immobilità e silenzio gli insegnano a lavorare
per un’improbabile vita futura.
«Un morto come me che si appoggia al tuo braccio.
E tu, Céleste, vuoi ancora portarmi ? ».
Per rivedere quel lembo di muro giallo
distesa di sabbia dorata quel minuscolo lembo
prezioso, prima di schiantarsi
in un eccesso di confusa tenerezza.
A tarda notte finalmente si venne a sapere
che era arrivato. Il viso livido e gonfio
la voce ridotta a un bisbiglio
. . . . . . . . . .
non diffonde la sua presenza
il freddo della risurrezione di Lazzaro ?
Poi la febbre andò sensibilmente aumentando
eppure continuava a scrivere teneri affettuosi versi
dedicati a Céleste. Con quale accanimento poi
rileggeva le pagine che semplicemente
erano tutta la sua vita
tutto il meglio della sua vita ?
« Per cercare l’aria che mi manca
… sono vecchissimo, Céleste »
Non parla più della malattia
ma della sua morte : un posto nero che lo inghiotte.
Il sole adesso non gli fa più male.
Eccesso di pensiero che svuota il pensiero
unica forma di attività
nel corpo indebolito e maniaco.
Il bel volto della madre ancora splendeva di giovinezza
quando la sua mano quella sera
segreta ed empia la feriva.
Sentiva il peso di dover pensare
e chiedeva tempo per poter parlare.

II
«Tu che ami i biancospini
guarda quello spino rosa.
Non è una vera meraviglia?»
Ritrovare quel profumo
respirando lì fermo davanti ai biancospini
senza entrare nel battito
di una vera allegria
immobile guardare e respirare
si affatica il pensiero se attraversa
l’immagine l’odore di una strada
il riflesso del sole su una pietra
la stagione ignota ricacciata indietro nel cervello
costretta fra tante immagini diverse
nel suono di una campana in un odore di foglie
da molto tempo ormai ha cessato di vivere ?
così nera adesso che il sole
è tramontato – sta nascosta
pronta a svincolarsi dal suo luogo solitario
pronta a spiccare il volo
un’unica forma nera pronta
a dileguarsi nella notte
sta per toccare il confine
ecco adesso vi è entrata
l’azzurro intravisto dalla finestra
è un luogo preciso della terra
senza rilievo senza colore gli alberi
e le colline non entrano più nei suoi occhi
qui saliva per vedere il cielo
senza nuvole il cielo lì sopra la terra
non entra più nei suoi occhi
né di giorno né di notte
in un affanno senza affanno
di vera allegria davanti ai biancospini
con una mezza speranza di ritrovare
il loro profumo per riapparire di nuovo
con tutta la speranza con tutta la paura
come quando il bel volto della madre
ancora splendeva e l’ordine degli anni
il filo delle ore si confonde e si spezza
la testa appoggiata al muro, alla cieca
in un posto sconosciuto che è la sua stanza
dove Céleste un momento aspetta
giorno dopo giorno solamente aspettando
che riposi cessato l’affanno
e l’azzurro intravisto dalla finestra
è un luogo preciso della terra
qui da muro a muro come quando
camminava e respirava davanti ai biancospini
e tutti odono gridi e rintocchi
come sempre in una pura pausa
come prima, per l’ultima volta
gli occhi fissi
sulle cose che non sapeva
di un’intera stagione che adesso
per lui diventa un dolore più grande
diventato il corpo di chi adesso
egli ama, l’unico che sappia
procurargli piacere e tormento
inesteso ritmo, frase indivisa
che sta per dimenticare
e poi riappare in sonorità prolungata
sipario che divide
e nasconde
ma le cose che non sapeva
adesso le teme senza accorgersene
e non cessa l’affanno
sotto il cielo senza nuvole
né di giorno né di notte
con tutta la speranza con tutta la paura
per riapparire davanti ai biancospini
unica forma nera pronta a dileguarsi
una frase nuova continua a immaginare
nel cuore gli duole con tutti gli altri nomi
che sempre a contagiarlo ritornano
e lo cullano come un cadavere
dentro nel cuore continuava a seminare
ma lentamente da lei intanto si separa
– e per sempre – senza poterle dire addio
mentre si fa notte fonda per riposare un poco
felicità immediata felicità dell’amore
gridata sempre nello stesso nome come in quel giorno
di separazione quando Céleste inutilmente
cercò di evitargli il dolore
adesso legge la sua vita e quella degli altri
più lentamente perché crede di aver cessato
di desiderare. Non più bambino
i suoi gusti nel tempo non cambieranno
e sa bene che mentale è la felicità
non guarisce ma soltanto sposta il dolore
perché l’oblio aumenta col tempo
e questo non può essergli celato
fra quelle quattro mura
fonte d’inquietudine gridi e rintocchi
da cui non c’è ritorno come in un recinto
il suo passo silenzioso davanti ai biancospini
ma come fare ritorno se ha cessato di vedere
incrociate le gambe la testa appoggiata sulle mani
senza desiderio e senza una meta
sapendo come va a finire : non un alito né gridi
e dove mai allora ? Se cerca aiuto
adesso che nessun pericolo o speranza
lo fa rabbrividire
perché non vuole muoversi
paziente aspetta che faccia giorno
adesso come allora nel nudo inverno
la stagione più bella di freddi fuochi
strappati all’instabile atmosfera
ma vede un animale così benigno
piccola persona celeste
Céleste è il suo nome

III
Galleggia sull’acqua ondeggia la ninfea
scivola giù in un ramo s’impiglia la mano
bianco groviglio di capelli come marmo.
Era quello il luogo felice
fiume di uccelli e bambini
luogo senza terra e senza acqua
luogo per tornare indietro
nel cuore dell’immaginazione?
Si fermò e smise di parlare
il presentimento che quel velo potesse
separarlo dal suo piccolo regno dei morti
facciata avvolta dal fogliame delicato
quasi invisibile facciata
ombra corteo di corpi e occhi
era lì sul punto di sparire.
Infantile il suo desiderio
che tutto ricoprisse la neve
fece di quella meraviglia l’innocente
annuncio di un terrore.
Sapeva che nel vuoto circondato da muri
il pensiero si affatica – fuoco in futura
esistenza di rovine a poco a poco diventa
equilibrio e si spezza così la vita
nel suo corso naturale se prende il sopravvento
notte dopo notte il biancospino spino rosa
ostinatamente chiuso.
Adesso riposa convalescente
sognando tutto il sogno per guarirne
fino a quando lo sguardo declina dalla luce
bianco del sole identico alla sua prima visione
nero che dilaga nella carne
tufo nel suo corpo che gira e gira
sempre più a fondo.
Notte dopo notte il mondo si ricrea
ostinatamente riemerge
nel dolce colore delle ore mattutine
e il riposo si accresce
nelle spalle nelle gambe nella sua persona
risparmiata dall’inverno