Archivi del mese: novembre 2019

La metropoli senza qualità: intervista a Zygmunt Bauman

Intervista di Alessandro Di Prima a Zygmunt Bauman tratta dal n.13 di Versodove.

Zygmunt Bauman (Poznań 1925 – Leeds 2017) ha insegnato Sociologia all’Università di Leeds. Ha pubblicato numerosi importanti saggi, fra i quali La decadenza degli intellettuali (Bollati Boringhieri 1992), Modernità e olocausto (Il Mulino 1992), La società dell’incertezza (Il Mulino 1999), Le sfide dell’etica (Feltrinelli 1996).

La letteratura, nel mondo globalizzato, può essere ancora uno spazio sociale, un momento di azione collettiva come intende la politica Claus Offe?

Ci sono due visioni per quanto riguarda il ruolo della letteratura nella cultura europea. Innanzitutto quella di Milan Kundera, che è stata influenzata da tutte le istituzioni della modernità classi­ca: non la modernità com’è oggi ma com’era duecento anni fa, quando le forze politiche, scientifiche e religiose imponevano uno standard culturale molto rigido, serioso, privato di ogni sen­so di umorismo e di ironia. Milan Kundera ha voluto intitolare un suo romanzo The laughter or angels, un titolo che era la sua cifra di ironia, scetticismo, di messa in dubbio della pressione totali­taria. Un elemento di libertà, di coscienza di sé stesso, attraverso il quale intendeva mostrare che il mondo non è costruito con regole uniformi. Dobbiamo poi considerare Umberto Eco, che ha una visione opposta: nel mondo tutto è fluido, liquido, tutto sta cambiando, niente è certo; solo nella finzione e nella lette­ratura è possibile secondo le regole della logica e dell’ordine, e la gente allora legge libri perché vuole una “storia d’autore”. Ci sono visioni opposte della funzione del romanzo, ma in comu­ne hanno l’idea che questo giochi un ruolo molto importante nella vita della gente, più specificamente in ambiente culturale. Penso che questa differenza di “uso” del romanzo sia dovuta al fatto che Kundera e Eco hanno differenti esperienze di vita. Kun­dera viene dall’Europa dell’est, e provava su di sé l’oppressione dell’uniformità, la potenza dell’insieme istituzionale. Umberto Eco ha vissuto in un mondo molto diverso, non così rigido, un mondo fluido, dove non si può sapere fino in fondo quello che è vero e quello che non lo è, quale è la realtà e quale l’invenzione, dove si ferma la fantasia e iniziano i fatti: un mondo dove tutto è indefinito. Se tu accendi la televisione e vedi il telegiornale o un momento di teatro non cogli la differenza, sono più o meno uguali. Evidentemente Eco vede la letteratura come qualcosa di potente, opposto alla pressione della realtà che ti rende confu­so, incerto, insicuro. La letteratura porta il medicinale, la capacità di raccontare, di mettere la logica nella corrente degli eventi”.

Cosa c’è, se c’è, in comune tra Kundera e Eco?

Che la nostra cultura ha bisogno della letteratura perché sen­za non può agire bene: la letteratura fornisce la seconda parte di un insieme più grande, di cui la prima parte non può farne a meno. Allora la domanda non è se il libro ha la funzione che gli attribuiscono Kundera o Eco (non importa chi dei due abbia ra­gione), ma se il libro gioca ancora un ruolo così importante nella cultura, se noi lo vogliamo leggere perché vogliamo usufruirne, ed è questa la domanda che è sempre stata ignorata e respinta a causa della discussione sulla tecnica del libro. La gente dà molta importanza all’invenzione tecnica del libro, l’invenzione del MIT, dell’inchiostro elettronico, della carta elettronica. La possibili­tà di un libro che cambi di contenuto, che può essere riscritto avendo l’impressione di avere davanti un libro tradizionale e che invece possiamo paragonare a un videotape, con diverse e successive registrazioni nella stessa cassetta. La gente è affa­scinata da questa discussione tecnologica, come se il futuro del libro dipendesse dalla tecnologia della produzione. Questo se­condo me è il modo sbagliato di discutere la questione, perché le condizioni che veramente decidono di colui che sceglie sono più vaste della tecnologia di stampa. Sono le condizioni nelle quali viviamo, condizioni che una volta spingevano le persone a pensare più avanti, al futuro, a trovare qualche consistenza, con­tinuità, una logica profonda nella vita. Era il tempo in cui Jean Paul Sartre scriveva del projet de la vie, un progetto che desideri avere per tutta la tua vita. Quando avevi diciotto anni volevi sa­pere cosa ti sarebbe successo a settanta, e per questa ragione avevi bisogno di aiuto, ricercavi fortemente, e la ricerca forniva risposte molto potenti: avevi il Bildungsroman nel XIX secolo, che prendeva le mosse da Goethe e presentava modelli di vita e problemi che lei avrà già incontrato; prendiamo a esempio Thomas Mann: I Buddenbrok consiste tutto nel mostrare che ci sono certi principi che dovrebbero essere osservati, e che cosa succede se violi questi principi; che tipo di responsabilità avresti dovuto prendere. Quello che mi domando veramente è se la ge­nerazione di oggi sta pensando della propria vita in questi stessi termini, poiché abbiamo tagliato tutto il processo della vita in brevi episodi separati e seriali, ci stiamo muovendo da un epi­sodio all’altro.

Una “serialità esistenziale” che fa il paio con le richieste di fles­sibilità del mercato …

Recentemente ho concesso un’intervista alla BBC. ln quel pro­gramma c’era un assistente di ricerca che lavorava per la BBC da 14 anni senza avere mai avuto un contratto. Poiché era molto bravo nella sua ricerca, molto intelligente e lavorava sodo, quan­do finiva un progetto veniva subito assunto per un altro, an­dando semplicemente da un’occasione di lavoro all’altra, senza sapere cosa sarebbe successo ad esempio dopo sei mesi; e la cosa più rilevante è che considerava quella vita come normale, pensava che quello fosse l’unico modo di vivere la vita: da un progetto all’altro. La sua unica soddisfazione era il senso di fare un buon lavoro e di convincere i futuri committenti di essere bravo, così da farsi assumere per un lavoro successivo. Quando hai questo tipo di vita non sei più interessato alla letteratura di Kundera o di Eco, ma ai film e ai libri che fanno vedere la vita come una collezione di eventi non collegati, grandi sensazioni. Quindi siamo costretti a vivere un presente senza lungimiranza, spremiamo ogni momento, e se pensiamo all’immortalità allora la vogliamo adesso e all’istante come il caffè solubile: “l’immortalità solubile” per uso immediato. Non vogliamo l’immortalità se ci occorrono quarant’anni di lavoro per attenerla; quello che vogliamo non è più la cosa vera, ma l’esperienza della cosa vera, le sensazioni, l’”Erlebnis” come dicono i tedeschi – vivere attra­verso un evento. Questo è il passaggio più importante, che met­te in dubbio, mina, l’atto stesso di scrivere romanzi.

In che modo allora è possibile generare una politica dell’ascol­to, specificamente dell’ascolto delle differenze?

Ci sono due modi per rivolgersi all’ascolto. Il primo è la curio­sità per le differenze, il secondo la tolleranza per le differenze. La gente è allergica, paurosa delle differenze – perché si sente insicura, incerta, non protetta, e se una persona con un colore di pelle diverso, una cultura, costumi, una religione diversi, entra nell’ambiente hanno paura, vogliono tanto un primo ministro che proibisca l’immigrazione e che mandi via gli stranieri. lo vivo la situazione già un po’ più tranquillamente: sono meno insicu­ro, meno incerto, meno pauroso di altra gente che vive una vita diversa dalla mia. Abbiamo allora due modi di reagire: nel primo (la curiosità), alla gente piace la cucina straniera, che è sparsa e conosciuta ovunque; per esempio la cucina thai, cinese, porto­ghese, indiana, e paga l’entrata per la differenza (culturale), paga il conto per il diritto di andar via. Ma il modo cambia quando una persona thai o del Bangladesh si sistema nella tua strada. In questo caso non puoi pagare per uscire dalla situazione. Questa è tolleranza per le differenze. Il prossimo passaggio, che è più importante, è il passaggio che va dalla tolleranza alla solidarie­tà. Tolleranza e solidarietà sono due cose diverse. La tolleranza potrebbe essere svalorizzante: tu sei diverso – io rispetto il tuo modo di vivere. Questo vuoi dire che non mi piace il tuo modo di vivere, ma te lo meriti, quindi tienitelo. Non mi metto in mezzo, fai quello che vuoi. E tutto questo dimostra la mia generosità: io ti permetto di essere diverso, però non significa che possiedi un valore o una virtù; io, invece, sono generoso, perché ti permet­to di essere diverso. Quindi la tolleranza potrebbe essere molto svalorizzante e generare ineguaglianze tra le persone. La soli­darietà è una cosa diversa, perché non significa soltanto che ac­cetto che la gente sia diversa, ma penso – e agisco in base al mio pensare – che tutti noi beneficiamo di questa diversità. Non è soltanto la varietà che è interessante, non mi piace la differenza soltanto perché voglio sfuggire la noia; mi piace perché penso che io posso imparare da te e tu puoi imparare da me. Possiamo tutti essere più ricchi grazie a questo. Non ti voglio convertire alle mie credenze, sono interessato alla tua religione perché for­se tu hai trovato qualcosa che io non avevo: ero cieco e ho visto per merito tuo. Quindi lo si può considerare un dialogo. Non vuoi dire che accetto tutto quello che mi circonda, che tutta la diversità è buona semplicemente perché è differente, ma vuoi dire che tento di unire le forze per elaborare un modo migliore di vivere per tutti noi. Questo implica un dialogo. La tolleranza è molto spesso monologica. Non so dire se prevarrà la tolleranza, la solidarietà o semplicemente il rigetto.

Sempre meno nelle grandi città si ha il tempo e soprattutto lo spazio per incontrarsi e per confrontarsi. Oltre al problema etico, possiamo considerarlo un problema di natura architet­tonica?

Gli spazi pubblici sono molto importanti. La creazione di spazi pubblici è un grande diritto architettonico, una grande arte che invita le persone a stare insieme a lungo, per chiacchierare, per scherzare. Mia figlia è architetto e ha vinto un premio naziona­le per aver convertito in spazio pubblico un vecchio impianto portuale chiamato “Brittington” che nell’ottocento godeva di una certa fama. Mia figlia quindi ha ricreato il centro di questo impianto in modo che la gente non soltanto lo visita, ma sente il piacere di rimanerci, di chiacchierare, di passeggiarci. Gli spazi comuni sono assenti nel nostro sviluppo urbano. C’è un archi­tetto americano di nome Flusty che ha notato come la maggio­ranza dello sviluppo architettonico crei spazi interdetti che non soltanto non attirano le persone, ma le scoraggiano e le respin­gono separandole, spazi che funzionano solo come luoghi di passaggio dove nessuno si ferma. In uno dei miei libri ho men­zionato la mia esperienza orrenda alla Défense di Parigi. È l’opera architettonica più prestigiosa costruita di recente a Parigi, e ha goduto di tante sovvenzioni da parte di Mitterand, che ne anda­va fiero. È una piazza enorme, completamente vuota, circondata da bellissimi palazzi enormi, costruiti con materiali pregiati, dal­le forme inusuali. Ma non vedi finestre, sembrano tutti blocchi di pietra, non vedi se c’è qualcuno dentro, dato che il materiale riflette la luce. Non si trova neanche una panchina in tutta la piazza dove ci si possa sedere e chiacchierare. Soltanto in fondo, in un angolo della piazza sopra un podio, c’è qualche panchina. Di conseguenza la gente che vi si siede diventa lo spettacolo. Questo sviluppo pubblico, che è “anti-pubblico”, non ci fa più immaginare l’agorà dei greci o il forum romano. Gli spazi pubbli­ci che abbiamo adesso o sono angoscianti, o dobbiamo pagare per avervi accesso, come i ristoranti e le discoteche.

Come possiamo interpretare oggi la città contemporanea?

C’è un sociologo urbanista molto interessante in Danimarca, Hedwig Becth, che ha sviluppato il concetto di “telecity”. Ha mai sentito parlare del “flaneur”? Era una volta l’uomo che aveva il tempo di passeggiare per le strade soltanto per un

suo piacere, per osservare i comportamenti delle persone senza parteciparvi; era un buono spettatore e il fatto che osservasse era un buon passatempo. Walter Benjamin, il filosofo tedesco, ne ha scritto approfonditamente. Oggi il flaneur non ha più bi­sogno delle sue gambe perché siamo tutti dei “flaneurs” quando guardiamo la televisione seduti sulle nostre poltrone. La città non può offrire tante attrazioni, varietà, diversità, quante ne offre la televisione. Abbiamo cinquanta canali, o forse duecen­to, e saltiamo da un canale all’altro senza incontrare in fondo nessuno. Quindi il flaneur diventa una persona solitaria. Da un lato la “telecity” influenza il modo di vedere il mondo, dall’altro spoglia della sua funzione la città, quella vera, la rende super­flua. La città reale promuoveva legami tra le persone: bisognava incontrare gli stranieri faccia a faccia, e ogni volta che incontravi uno straniero anche lui ti incontrava faccia a faccia, l’incontro era reciproco e rappresentava, potenzialmente, l’inizio del dia­logo. Nella “telecity” invece l’incontro proviene solo da un lato: tu vedi lo straniero, ma lui non ti vede, lo schermo non ti vede, è soltanto un’immagine, e quindi non è l’inizio di un dialogo, è senza conseguenze.

La poesia può essere il luogo delle differenze?

Non posso rispondere a questa domanda, non sono un poeta; mi piace la poesia, ma non l’ho studiata. La poesia è l’atto di immaginare mondi possibili ed è sempre stato il suo vantaggio poiché noi paghiamo una mancanza di alternative se pensiamo che il nostro mondo sia l’unico mondo possibile: sinceramente abbiamo bisogno di più poeti.

Quale libro o quali autori consiglierebbe di leggere a dei gio­vani lettori?

Ci sono due autori da cui ho imparato molto: Jorge Luis Borges e Italo Calvino. Le città invisibili è il migliore libro di sociologia che abbia mai Ietto. E poi c’è un romanzo che riassume la storia dell’Ottocento, se si vuole capire la storia di quel secolo biso­gna leggerlo: L’uomo senza qualità di Robert MusiI. Un altro è un romanzo di George Perec, che invece dovete leggere se volete capire la storia del XX secolo: La vita istruzioni per l’uso .

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“Poesia e psicoanalisi: mappe per un dialogo” – intervista a Vittorio Lingiardi

Un estratto dall’intervista a Vittorio Lingiardi uscita sul n. 20 di Versodove.

I risultati delle neuroscienze che lei riferisce sono impressionanti: soprattutto il fatto che la visione del paesaggio attivi nel nostro cervello i neuroni specchio, gli stessi che riconoscono l’espressione di un volto o un comportamento umano.

Quello neuroscientifico è uno dei modi possibili di guardare il paesaggio. Pensare il paesaggio, infatti, implica la condivisione di un territorio promiscuo. Decine di discipline lo esplorano. Miliardi di occhi lo toccano, guardandolo senza essere visti. È materia per geologi e geografi, ecologisti e architetti, archeologi e storici dell’arte, antropologi e giuristi, filosofi e neuroscienziati. E naturalmente per viaggiatori, esploratori e turisti. Ai tanti sguardi ho provato ad aggiungere quello di uno psicoanalista curioso di dialogare con le altre discipline. Il mio libro Mindscapes non ha una specifica direzione o una gerarchia: si può partire da un capitolo qualunque, entrare e uscire. Si può leggere come un paesaggio, lasciando che lo sguardo si soffermi dove vuole, su un punto che ci riguarda più di altri. Lei è rimasto colpito da quello che gli studi sui neuroni specchio possono dire del nostro rapporto con il paesaggio. Quando prima mi domandava se a nostra psiche/cervello può riconoscersi nel paesaggio non umano proponeva una bellissima sintesi di ciò che potrebbero dirci questi studi. Ipotesi di grande fascino, ma ancora molto speculative. Infatti risponderò soprattutto con… domande! Inoltre dovrà perdonarmi perché, come avrà notato, non ho il dono della brevità… Dunque, se il nostro rapporto con il paesaggio prende vita nell’incontro tra percezione, cognizione, memoria e risonanze emotive, l’idea di mindscape non può che contenere quella di brainscape: disgiungerle impoverirebbe la visione. L’esperienza visiva del paesaggio ci sospinge dunque nei territori di una disciplina relativamente nuova, la neuroestetica. In che modo il nostro cervello “vede” gli oggetti e le loro forme? È possibile applicare alla visione del paesaggio ciò che abbiamo appreso dagli studi sui correlati neurali della visione di produzioni artistiche? Cosa ci insegnano le neuroscienze cognitive sul nostro modo di guardare un dipinto, una scultura, un film? Quali differenze neurali accendono la visione di un paesaggio fotografato, dipinto e guardato “dal vero”? Non solo: da cosa dipendono le nostre preferenze paesaggistiche e quanto sono condizionate da specifiche affordances (proprietà che “fanno presa” sul nostro sguardo) del paesaggio? Non abbiamo qui lo spazio per tentare di rispondere a queste domande. Valga per tutte l’affermazione dello scienziato Vittorio Gallese per cui osservare il mondo

è un’impresa ben più complessa della mera attivazione del “cervello visivo”. Sono in gioco molte parti del cervello: sensorimotorie, limbiche. Un elemento cruciale della risposta estetica è l’attivazione di meccanismi universali “incarnati” che comprendono la simulazione di azioni, emozioni e sensazioni corporee. Si tratta, per dirla ancora con Gallese, di un basic level di reagire alle immagini, essenziale per capire l’efficacia sia delle immagini della vita di tutti i giorni sia delle opere d’arte. Cosa deve raccontare un’immagine per attivare un’esperienza mirror? Sono indispensabili le tracce dell’umano o basta la “scena naturale”? E quanto dipende dalle nostre predisposizioni, intenzioni, organizzazioni cognitive? Nell’“ambiente non umano”, ci limitiamo a proiettare o possiamo rispecchiare? Ha ragione Rilke ad affermare che il nostro rapporto con il paesaggio implica una solitudine radicale, che “il paesaggio è lì, senza le mani, e non ha un volto”? I risultati di una ricerca (Di Dio, Ardizzi, Massaro … Gallese, 2016) sulle attivazioni corticali riguardanti dipinti con due diversi tipi di immagini (umane e naturali) in due situazioni diverse (statiche e dinamiche), possono fornirci qualche suggerimento. Innanzitutto, non sembra esserci differenza tra figure umane e scenari naturali nella capacità di produrre un’attivazione corticale. Entrambe le categorie di immagini attivano zone corticali deputate all’analisi percettiva e alla classificazione dello stimolo. Addentrandoci nei risultati dell’esperimento scopriamo che i dipinti raffiguranti esseri umani, in particolare quelli contenenti scene dinamiche, sembrano determinare una risonanza motoria maggiore (grazie alle azioni raffigurate). L’esposizione a scenari naturali sembra però attivare una componente sensorimotoria aggiuntiva che favorisce la simulazione motoria di un immaginario comportamento esplorativo. In altre parole, sembra che nel caso di scenari naturali, l’elaborazione estetica implichi una sorta di immersione nella scena rappresentata che avviene sulla base delle esperienze, dei bisogni e delle emozioni dell’osservatore. La visione di uno scenario alpino promuoverà in uno scalatore attivazioni specifiche, così come una piscina di Hockney in un nuotatore. In conclusione credo si possa affermare che i nostri neuroni sono piuttosto interessati al paesaggio.

In sostanza, si può dire che il nostro rapporto con il paesaggio sia ben più complesso, e intenso, della “contemplazione” dell’estetica classica?

Il nostro rapporto con il paesaggio non si esaurisce nello sguardo e nella contemplazione. Implica il corpo e la sua partecipazione sensoriale, si carica di affetti e memoria e diventa elemento dell’identità. Paesaggire, il magnifico neologismo coniato da Andrea Zanzotto serve a mettere a fuoco la presenza umana e le lacerazioni della storia, facendo del paesaggio un luogo reale in continuità con un luogo psichico. Un “deposito di tracce”, dice il poeta, quel “rasoterra in cui ho dovuto rifugiarmi più volte, per non restare ammazzato durante i rastrellamenti”. Stare nel paesaggio, continua, può comportare “eritemi” su una pelle “offesa” e “diffrazioni” che impediscono allo sguardo di “concentrarsi in un unico punto della storia, di avere una visione semplice e nitida”. La nostra relazione con il paesaggio deve abbandonare la dimensione panoramica per entrare nell’esperienza fisica. Come psicoanalista credo nella continuità tra psiche e corpo, spazio interno e spazio esterno, e li sento inseparabili. Rubo felicemente a Merleau-Ponty l’idea dell’ambiente come patria dei nostri pensieri e quella del bastone del non vedente come estensione del suo sguardo, l’estremo punto di contatto che si trasforma in zona sensibile.

Il paesaggio dell’inconscio, il paesaggio della poesia hanno delle affinità: dalla metafora archeologica di Freud alla topologia archetipica di Jung fino alla linea della lettera di Lacan. E, sull’altro versante, Dietro il paesaggio di Zanzotto, per tornare a lui, così come i molteplici attraversamenti della forma-città in tanti libri di poesia. Cosa rappresenta davvero la parola “paesaggio” rispetto all’ambizione di una mappatura definibile una volta per tutte?

Non esiste mappatura definibile una volta per tutte. E quello di paesaggio rimane un concetto indefinibile, ambiguo e sconfinato. Proprio Zanzotto dice che il paesaggio “non si stanca mai di lasciarsi definire” ed “è in fuga da ogni possibile definizione perché in sé le racchiude tutte”. Potremmo dire lo stesso per l’inconscio e per il sogno che, diceva Freud, “ha perlomeno un punto di insondabilità, quasi un ombelico attraverso il quale è congiunto all’ignoto”. Questo non significa che non possiamo giocare, come direbbe Benjamin, con l’idea di “articolare lo spazio della vita in una mappa”. L’analisi di un paziente è imparare a conoscere i suoi paesaggi: le grotte per proteggersi, i porti per rifornirsi prima di tornare a esplorare il mondo, le torri per guardare dall’alto e i cunicoli per scendere in basso, i mercati per scambiare gli oggetti, le biblioteche per archiviare le conoscenze, gli spazi virtuali per incontrare sconosciuti. Quando Benjamin descrive Parigi, sembra quasi parlare di una seduta d’analisi: dice “si scinde nei suoi poli dialettici”, “si apre come un paesaggio” e ci “racchiude come una stanza”.

 

Photo by Kevin Hou on Unsplash


Edifici scarto. Figure del tempo – di Antonio A. Clemente

Nell’ebraico delle sacre scritture c’è una coincidenza: sherìt è resto, reshìt è principio, due parole lontane in italiano ma unite in quella lingua dal vincolo misterioso dell’anagramma e del valore numerico. Solo Isaia le accosta (46, 3 e 10). Forse si può sopportare di essere un resto, ingiustificato e abusivo al mondo, solo se si crede all’impossibile disegno che fa, del proprio essere residuo, la materia prima di un principio.

Erri De Luca, Alzaia, 2004

Gli scarti sono corpi costruiti colpevolmente innocenti di essere stati immaginati, progettati, realizzati. E abbandonati.

Gli scarti sono fabbricati, in uno stato di decomposizione senza morte, che abitano lo spazio intermedio tra tutte le potenzialità del passato rimaste inespresse e un futuro che potrebbe non arrivare mai.

Gli scarti sono edifici sospesi tra memoria e dimenticanza. La memoria della loro sopravvivenza passiva in un luogo specifico, in una posizione determinata, nell’ambito territoriale che li contiene. La dimenticanza di un corpo edilizio trascurato che mostra, negli intonaci scrostati e nelle parti mancanti, il decadimento generale dovuto al suo essere fuori-uso. Ed è proprio nello spazio tra queste due condizioni che il paesaggio degli scarti si apre al futuro o si avvia alla sofferenza supplementare di una progressiva decomposizione. L’edificio-scarto, per sua natura, pone sé stesso come tema di progetto solo quando si presta a essere trasformato, ad accettare un destino diverso da quello per cui fu costruito, ad abdicare rispetto alle sue origini. Se, al contrario, non è suscettibile di alcun cambiamento, il manufatto edilizio, o ciò che resta di esso, non ha altra sorte che continuare a consumarsi. Fino alla conseguenza estrema: diventare rudere. In questo caso, l’edificio-scarto dopo aver perso il diritto di residenza nella vita della città, migrerà nel ricordo fotografico, per finire nell’inconscio urbano da dove, di tanto in tanto, salterà fuori come testimonianza privata di un paesaggio immutabile.

La riflessione sugli scarti presuppone una ricognizione di questi edifici, delle loro condizioni di contesto, delle loro caratteristiche tecnico-costruttive ma, soprattutto, del senso che questi manufatti edilizi hanno assunto rispetto ai paesaggi della città contemporanea. Lo scarto appartiene, infatti, a una configurazione territoriale molto diversa da quella originaria. Tuttavia se l’intento è stabilire il valore venale, l’operazione non è difficile. La valutazione basata sulle logiche di mercato, però, può essere sufficiente per un’agenzia immobiliare, per impostare un programma di riqualificazione, per dare avvio a un piano urbanistico ma non dice niente sulle cause che hanno portato ad abbandonare il fabbricato, non proferisce parola su come lo stesso fabbricato sia diventato residuo territoriale inutilizzato, né lascia trapelare nulla sul progressivo disfacimento del suo organismo costruttivo.

Ogni scarto è testimonianza di un trauma; è attestato edilizio di una diaspora familiare, di trasferimenti improvvisi, di lutti mai più elaborati altrove; è racconto inespresso di cui difficilmente vi sarà mai traccia scritta. Orfani delle funzioni che furono, gli scarti sono edifici che invitano a osservare la realtà secondo la sua doppia declinazione: tutto ciò che è rimasto ma anche tutto ciò che non è più.

Quello che colpisce degli scarti è il confronto tra l’immobilità del presente e la dinamicità delle biografie anonime che qui avevano dimora temporanea. La nudità tridimensionale del corpo di fabbrica rispetto alla topografia interiore che una volta la animava. Lo stare in attesa di costruzioni che sembrano aver esaurito tutte le aspettative possibili.

Probabilmente è proprio per questo che gli scarti vanno interrogati non come figure dello spazio ma come figure del tempo che pongono alla città contemporanea due domande essenziali: quando riconquistare la loro vecchia forma a un nuovo uso? Quando desistere?

Un primo passo verso una possibile risposta sta nell’identificazione delle figure dell’oblio: il ritorno e l’abbandono.

La figura del ritorno ha come ambizione principale quella di dare una prospettiva al passato che fu. È un nuovo inizio che può avvenire quando si creano le condizioni per la riconversione del manufatto edilizio. Nella figura del ritorno si danno due possibilità: dare continuità al passato perduto, come pure, ricominciare daccapo con presupposti radicalmente diversi da quelli di una volta. Nel primo caso è l’alta qualità architettonica a prevalere come testimonianza di un passato, anche remoto, che torna a sperimentare la propria presenza territoriale. Nel secondo caso, poiché l’edificio-scarto non esprime particolari valori storico-paesaggistici l’impianto formale non viene riproposto integralmente ma diventa punto di partenza per i cambiamenti che le nuove destinazioni d’uso comportano. Qui l’intervento progettuale, con i suoi ampliamenti e le sue rivisitazioni, assume un valore inaugurale che segna una discontinuità netta con il passato.

La figura dell’abbandono non ha ambizioni per il futuro ma pone sé stessa come sguardo sul passato. Un passato che non tornerà perché l’edificio-scarto è ripiegato su sé stesso, su quello che è stato e che, con ogni probabilità, non sarà mai più perché ha smarrito la propria identità. È diventato un guscio vuoto; un contenitore che mantiene una forma senza che dentro vi sia nulla che possa essere definito un contenuto. Anche la figura dell’abbandono sottende due possibilità: l’attesa e la demolizione. La prima riguarda tutti quei casi in cui, il manufatto edilizio vive nella sua forma di rudere come memoria archeologica che, avendo perso la propria ragion d’essere, non ne trova più alcuna per tornare a esistere. Qui non c’è alcun intervento possibile perché prevale l’indifferenza della città che non ha bisogno di quel rudere. Molto diverso è il caso della demolizione. L’edificio-scarto, senza alcun riferimento alle sue prerogative formali, architettoniche o storico-paesaggistiche, viene eliminato fisicamente perché il contesto territoriale in cui è inserito ha assunto nuovi valori dal punto di vista economico-finanziario. Ecco perché l’unico intervento possibile è la demolizione. Qualsiasi altra possibilità che dovesse contribuire, sia pure in modo infinitesimo, a contrastare i nuovi disegni di valorizzazione fondiaria non viene neanche presa in considerazione.

L’edificio-scarto è una metafora del tempo che nel tempo si consuma o rinasce. È una linea sottile quella che separa due destini così diversi: su un versante la dimenticanza consente la rinascita e sull’altro il ricordo conduce alla rovina*.

 

Articolo uscito su Paesaggi di Versodove. Città, territori e scrittura, a cura di V. Bagnoli, V.M. Bonito, A.A. Clemente, F. Lombardo, V. Masciullo, S. Semeraro, Pescara, Sala Editori, 2017, pp. 71-74.

Foto di Valeria Reggi tratta da Offscapes. Beyond the Limits of Urban Landscapes, foto di V. Reggi e prefazione di Antonio A. Clemente, Trafika Europe, 2016; ed. it. Offscapes. La parte distante del paesaggio, Sala Editori, 2017.