Estratto dell’intervista realizzata da Giorgia Karvunaki a Yanis Varoufakis uscita nel 2018 sul n. 20 di Versodove.
Si dice che la critica oggi sia in difficoltà, che faccia fatica a capire la letteratura, l’arte, e a spiegarla al pubblico. Secondo lei è così?
La critica per definizione deve confrontarsi con la difficoltà, nel momento in cui deve confrontarsi con l’analisi e l’interpretazione e ricavarne dei concetti. Se non fosse difficile, questo lavoro non sarebbe interessante. Le grandi opere teatrali e letterarie non sono mai determinabili una volta per tutte. È difficile comprenderle nella loro totalità. E devono essere inesauribili: ogni volta che le leggiamo, dobbiamo trovare qualcosa di diverso. Il che significa che il critico affronta delle enormi difficoltà, ed è giusto che sia cosi. Il critico viene valutato in base a quel qualcosa in più che ci dà, per poter capire meglio un’opera teatrale, un libro.
La ‘crisi’ e la ‘globalizzazione’ secondo lei influenzano il nostro modo di pensare, di conseguenza influenzano anche la letteratura in generale e la drammaturgia contemporanea in particolare, sia in Grecia sia all’estero?
Assolutamente sì. La poesia, il teatro, la letteratura non sono che l’espressione del nostro modo di pensare: modo che viene plasmato dalla nostra quotidianità, dalla nostra vita. Ogni volta che viene usata la parola globalizzazione, sento il bisogno di dare una definizione di quello che intendiamo usandola. È un termine distorto. La globalizzazione è iniziata quando le prime persone se ne sono andate dall’Africa e hanno colonizzato gli altri continenti. Questa è la nostra origine, si sa. La globalizzazione va dunque di pari passo con il genere umano. Il termine però nell’ultimo periodo, dopo il crollo del blocco sovietico e in particolar modo dopo il 1991, viene usato per indicare che il capitale finanziario ha ruota libera. Perciò, quando parliamo oggi di globalizzazione, stiamo in realtà parlando di due fenomeni paralleli. Da una parte parliamo dei banchieri che possono fare quello che vogliono. Premendo solo un bottone possono trasferire dei miliardi da qui a Singapore, da Singapore nel Vietnam, dal Vietnam in Corea, dalla Corea in Svizzera. Premendo solo un bottone. Stiamo quindi parlando della globalizzazione del capitale finanziario. Dall’altra parte, nel giro di un anno più o meno, abbiamo avuto due miliardi di persone che sono state inserite improvvisamente nel mercato capitalistico del lavoro. Ciò è accaduto nel momento in cui, dopo il crollo del blocco sovietico, le persone che hanno abbandonato il sistema comunista sono entrate nel mercato del lavoro, vendendo il loro lavoro, mentre contemporaneamente anche la Cina entrava a far parte del sistema capitalista. Questo è la globalizzazione. E ha cambiato tutto. Una gran parte del Terzo Mondo è stata trasferita in Europa e in America, e non parlo degli immigrati naturalmente. Sto parlando della povertà. Intere zone industrializzate in Inghilterra, per esempio, ora sono abbandonate, impoverite. E una parte del Primo Mondo è andata nel Terzo. Tutto questo non poteva non influenzare il nostro modo di pensare.
La sua domanda mi ha riportato in mente il compito difficile che ho dovuto svolgere il 9 aprile. Mi hanno invitato a Londra, al Royal Festival Hall, per parlare della globalizzazione, in occasione della presentazione alla Hayward Gallery delle opere di Andreas Gursky, il famoso fotografo tedesco. Nelle sue foto Gursky cerca di imprimere quello di cui stiamo parlando, la società che si sta globalizzando. E mi sono trovato davanti al difficile compito di scrivere un discorso in cui associare la mia posizione politico-economica relativa alla globalizzazione e la rappresentazione artistica del fenomeno.
Se ci sono riuscito lo devo anche a Danae Stratou, mia moglie, autrice di installazioni. Abbiamo realizzato insieme un’opera che abbiamo chiamato Il muro che si sta globalizzando. È un suo video basato su miei testi. Quindi questa influenza reciproca tra analisi politico-economica e approccio non solo artistico ma anche letterario, in senso lato, ai problemi della globalizzazione è una cosa di cui mi occupo da tempo.
Un’intera società/civiltà in crisi (non solo la Grecia, forse tutta l’Europa) può avere bisogno di una terapia per la psiche? La psicoterapia nacque proprio pochi anni prima di quella prima guerra mondiale che aprì un secolo “terribile”. Oggi abbiamo forse bisogno di nuove terapie per la psiche delle collettività? La letteratura può svolgere questo ruolo?
La mia opinione riguardo a questo argomento direi che è radicale, e sicuramente non favorevole. È un argomento che non mi interessa. Ora naturalmente non ho tempo, non me ne occupo, ma avevo letto in passato Jung, Freud, Lacan e tutti i grandi della psicanalisi. E perché sono contrario all’industria della psicoterapia. È nota a tutti l’ondata statunitense della cessione della salute della psiche nelle mani degli specialisti. E come gli economisti non sono gli specialisti dell’economia, altrettanto o molto di meno gli psicanalisti, gli shrinks (gli strizzacervelli) come vengono chiamati negli Stati Uniti, e gli psicoterapeuti, sono gli specialisti dell’anima. Il lavoro degli psicoterapeuti aumenta, quando cala la capacità delle persone di reagire all’interno di una società che gli scaccia nei suoi ingranaggi. Le famiglie, quelle più ricche specialmente, estraniate dalla loro esistenza, non dialogano più, svanisce il minimo scambio tra i loro membri e, avendo soldi a disposizione, fanno un subcontracting (subappalto): uso il termine inglese in quanto sembra proprio una strategia aziendale. Nostro figlio non sta bene, ha dei problemi psicologici, allora lo mandiamo dallo psicologo.
Contemporaneamente si nota che nel mercato del lavoro dei funzionari di livello medio-alto, di quelli che hanno intenzione di diventare dirigenti – sono la maggior parte dei nostri studenti universitari – quelli che studiano marketing, che fanno master in business administration, sono disposti a fare di tutto per arrivare al posto desiderato.
Fino a poco tempo fa le nostre società funzionavano in base alla netta separazione tra lavoro e vita. Dalle 09.00 alle 17.00 si lavorava. Abbiamo sudato come società per ottenere questo orario. Venivano vendute, o salariate da un datore di lavoro, otto ore della vita del lavoratore, per fare un lavoro ben preciso. Il lavoratore non si immedesimava al suo lavoro. La sua vita personale iniziava dalle 17.00 in poi. Il suo lavoro poteva anche piacergli, ed era certo meglio così, se era anche un suo passatempo. Veniva comunque separata nettamente la persona che andava a lavorare e produceva valore e plusvalore per il datore di lavoro dalla persona che dopo le 17.00 rientrava a casa, leggeva un libro, andava a teatro.
Oggi i ragazzi sono costretti a vendere sé stessi ai datori di lavoro come se dovessero vendere un brand. Esattamente come fanno Adidas, Nike, Coca Cola, Apple: i loro prodotti vengono prodotti altrove, e loro, come ditte, vendono solo il brand, l’immagine. Allo stesso modo i giovani sono costretti a vendere sé stessi, come immagine, come un insieme di cose: durante i colloqui non parlano solo di quello che possono offrire alle aziende, ma viene controllato quello che scrivono su FaceBook, su Twitter. Quindi vendono un insieme di cose oltre al loro lavoro; ed è quell’insieme di cose a fare la differenza, a determinare se il giovane verrà assunto con un buon salario o non verrà assunto affatto. Viene insomma valutato non solo quello che il giovane può offrire dalle 09.00 alle 17.00, ma fino a mezzanotte; viene valutato il tweet che il lavoratore può mandare, in quanto può rappresentare l’azienda agli occhi del mondo. Ed è questo insieme di cose che il datore di lavoro compra o salaria. E andrò oltre, avendo un’opinione radicale sulla questione. I datori di lavoro dicono agli intervistati: a noi interessa la vostra passione. Così gli intervistati devono individuare i lavori che sono inerenti alle loro passioni. Sembrerebbe una cosa buona avere come lavoratori persone appassionate al loro lavoro. Ma ciò fa sì che i ragazzi si trovino all’improvviso costretti ad andare alla ricerca delle loro passioni, a trovare motivazioni. Perciò si rivolgono in massa agli psicoterapeuti, per scoprire le loro passioni, per poterle vendere ai loro datori di lavoro.
In questo modo la psicanalisi e la psicoterapia diventano parte di un disturbo psichico, che poi alla fine diventa un disturbo redditizio per le tasche degli psicoterapeuti.
Quindi invece di avere, come ai tempi di Freud, uno psicoterapeuta che ti aiuta a superare i tuoi problemi, ora succede il contrario. Esiste un’interdipendenza tra il disturbo e l’industria della psicoterapia.
E la terapia della psiche delle collettività?
Quella di una volta. La musica, la letteratura, il buon libro e… l’azione. Non solo pensare ai nostri problemi ma passare all’azione, trovando delle soluzioni.
Come nella parola poesia, che deriva dal verbo ποιέω, ossia produrre, fare, creare…
Yanis Varoufakis (Atene, 1961) professore di teoria economica all’università di Atene, è stato Ministro delle Finanze nel primo Governo Tsipras. Nel febbraio 2016 ha lanciato il Democracy in Europe Movement 2025, un movimento politico paneuropeo. Tra i suoi titoli più recenti in italiano: Il minotauro globale. L’America, le vere origini della crisi e il futuro dell’economia globale (Asterios, 2012); Confessioni di un marxista irregolare nel mezzo di una ripugnante crisi economica europea, (Asterios, 2015); È l’economia che cambia il mondo: Quando la disuguaglianza mette a rischio il nostro futuro (Rizzoli, 2015).
Giorgia Karvunaki vive e lavora come intermediatrice – promotrice culturale e traduttrice ad Atene.
Photo: Socrates Baltagiannis