Intervista a Vittorio Gregotti di Alessandro di Prima uscita sul n. 13 di Versodove.
Partiamo dal concetto di figura: in che termini si può parlare di figura retorica in architettura o in urbanistica?
Anche se può sembrare un problema nominalistico, faccio sempre una distinzione tra forma e figura. Penso che la figura sia la forma dotata di senso, quest’ultimo inteso nella sua doppia accezione di sensorialità e di significazione, la sua capacità di significare. C’è una sorta di passaggio doppio quando si pratica l’architettura che, come la musica, è un’arte che non descrive, parla di se stessa, soprattutto. E parlare di sé stessi, per l’architettura, significa che chi la fa ha dietro di sé una grande quantità di fatti, di memorie, di esperienze, di difficoltà, di speranze. Tutte cose la cui complessità deve in qualche modo trasformarsi, diventare un’altra materia, e, una volta diventata architettura, per gli altri può rappresentare il discorso, una forma di narrazione che è ovviamente forma di narrazione interpretativa. Fondata quindi sulle ragioni attraverso le quali l’architettura si è costruita (ed è a partire da lì che si può reinterpretarla), ma che può essere re interpretata in modi tra loro molto differenziati, oltre che usata in modi diversi. Se dunque di figure retoriche si può parlare nel momento dell’intenzione, è molto difficile parlarne nel momento dell’uso.
Esiste un ritmo della città? Si possono fare esempi di città romanzesche, poetiche, teatrali? O, per spingersi oltre nella provocazione, di città-sonetto o città-poema?
Ci sono certamente delle parti di città, frammenti che sono dei poemi (tutta la città è difficile che lo sia), ma si tratta sempre di una attribuzione di significato: si può guardare un’architettura o una città come a una sequenza di fatti. Il tema della sequenza forse è quello che più di altri può mettere insieme l’idea che si faccia della città una lettura per tempi successivi, in posizioni successive, per percezioni che si sommano; in questo senso allora l’idea della sequenzialità si avvicina al modo di esprimersi, del costruirsi della poesia, che è poi una sequenzialità spesso molto interrotta.
Può esserci nel tessuto urbano qualcosa di equivalente a una rima?
Noi costruiamo continuamente rime quando costruiamo uno spazio urbano volontario, nel senso che c’è un rimando di una parte nei confronti dell’altra; e quindi un equilibrio lo si stabilisce a partire, per esempio, dal problema della distanza tra due cose. La distanza o la vicinanza di due cose sono un modo attraverso il quale si stabilisce una rima tra le cose stesse. La distanza è il vuoto, l’intervallo, un elemento importante per l’architettura come per la poesia.
Quindi nella città la rima, più che specifico elemento, potrebbe essere paradigma di controllo?
Io credo di sì, credo che chi costruisce una parte di città ha sicuramente in mente un tipo di fraseologia e di rispondenza tra le parti, un controllo che nel nostro discorso può anche chiamarsi rima.
Benjamin scriveva spesso del flaneur, dell’osservatore che vaga per la città. È preferibile, per capire senso e sviluppo del tessuto urbano, guardare con l’occhio del progettista, oppure con quello del flaneur, in attraversamento?
Devo dire che i flaneurs sono diventati nella città sempre più rari (forse perché la gente non ha tempo), ed è indubbio che non bisogna confondere il flaneur con il turista. Quella del flaneur purtroppo è diventata una categoria di specialisti, perché al contrario, in generale, le persone sono poco sensibili allo spazio dentro il quale vivono, all’ambiente dentro il quale operano. Lo sono spesso per ragioni o per difficoltà obiettive, ma in questo momento specialmente in Italia e nei paesi latini c’è uno scarso interesse per la qualità dell’ambiente, una scarsa sensibilità. In un famoso libro, Lynch fa un’analisi attraverso una serie di persone che guardano la città e che la ridescrivono pur non essendo degli specialisti. La ridescrivono a partire da elementi che invece di costituire la città generalmente appartengono allo scambio commerciale; gli elementi diciamo aggettivali della città, non strutturali. In questo senso dico che il flaneur è poco di moda.
Zygmunt Bauman, con lo sguardo del sociologo, ci ha detto che il flaneur oggi non ha più bisogno di attraversare la città perché ha la televisione, e introduceva così il concetto di «telecity».
La trovo una riflessione di un pessimismo tragico, perché l’idea che, invece di avere l’esperienza, ne possediamo solo il fantasma, credo sia uno dei grandi problemi, anche etici, che noi attraversiamo. La violenza, per esempio, deriva dal fatto che molte persone hanno un’esperienza sempre indiretta, estrema, attraverso la televisione, la pubblicità, l’omogeneità del mercato, per poter sentire il proprio corpo, la propria vicenda. È una conseguenza di questo spostamento fantasmatico.
Borges, Kafka, il labirinto: ci sono scrittori che attraverso scritture pervasive tendono ad occupare interamente lo spazio narrativo: si può parlare di una prosa carceraria, proprio nel senso architettonico del termine?
È una discussione che ho fatto molte volte con Giorgio Agamben. Lui pensa che il modello della città contemporanea sia il modello del campo di concentramento. In questo senso il campo di concentramento ossia, come dice lo stesso Agamben, la coincidenza tra l’uomo biologico e l’uomo sociale, è un modo di essere di questa invasività borgesiana, di questa assolutezza dove tutto è occupato. Non ci sono più spazi possibili perché la geometria fissa tutti gli elementi di comportamento. Questo è un ragionamento estremo, lo riconosco, ma è un ragionamento sul quale vale la pena riflettere perché spesso siamo vicini a questo tipo di condizione, di costrittività.
L’architettura inevitabilmente modifica lo spazio fisico: può la scrittura, come sostiene lo stesso Benjamin, “modificare l’ambiente oggettivo degli uomini”?
Io sono convinto di sì. L’architettura modifica nel bene e nel male lo spazio fisico, nel senso che occupa, trasforma i rapporti, stabilisce delle relazioni. La letteratura non fa queste operazioni fisicamente parlando, però indubbiamente può trasformare non tanto il comportamento quanto l’intenzionalità delle persone. Penso che le forme dell’intenzionalità possono essere trasformate, influenzate, indirizzate dalla letteratura. La letteratura può far vedere cose che non si vedono, o farle vedere da un punto di vista da cui normalmente non si vedono. L’idea di scoprire delle cose è una trasformazione anch’essa, non certo fisica, ma forse più profonda.
Vincenzo Consolo ribadiva con fermezza la necessità di una riacquisizione del senso etico per la letteratura; l’architettura, investita oggi da problemi di marketing, mercato, globalizzazione, in che modo può occuparsi dell’uomo?
Consolo è un mio caro amico, e l’architettura è investita ampiamente da questi problemi perché, oggi, essa è uno strano sistema di doppiezza, almeno per gli architetti che io ritengo seri. Questi architetti soddisfano dei bisogni, ma attraverso la soddisfazione dei bisogni che permette loro di costruire o di proporre un certo tipo di ambiente, pensano ad altre cose che sono completamente diverse, spesso anche contraddittorie rispetto a quel tipo di ambiente. Penso che dobbiamo molto alla modernità, alle avanguardie, al pensiero della prima metà di questo secolo che ha capito che il problema dell’arte era di costituire delle distanze critiche rispetto alla realtà. La costituzione di questa distanza critica, e in questo senso parlo di doppiezza, è agita perché chi propone di fare una cosa lo fa in modo positivo e trascina positivamente, ma al di sotto di questo c’è una specie di secondo strato, di secondo livello in cui la cosa viene ridiscussa, e a quel punto si può già non essere più d’accordo, cercare di deformarla o trasformarla per rendere evidente questo tipo di contraddizione.
C’è anche un Gregotti più specificamente narratore, quello del “Recinto di fabbrica”, per intenderci. Esistono scrittori “architettonici”? E, al contrario, esistono libri “abitabili”, arredabili con il pensiero? Penso in questo momento, per esempio, a certe analogie tra alcune architetture di Carlo Scarpa e gli interni, le porte o le scale, dei racconti fantastici di Buzzati.
Scrittori architettonici ce ne sono: il mio amico Del Giudice, ad esempio, è uno scrittore architettonico. È un uomo che pensa all’idea della descrizione come elemento di penetrazione, e questo è un modo di essere certamente architettonico. Un libro che io amo molto è Cuore di pietra di Vassalli; un libro che descrive una casa e attraverso la descrizione della casa riporta la società di quella città durante vent’anni. È un artificio letterario quello di utilizzare una casa come spiegazione, me ne rendo conto, però non puoi evitare di passare attraverso questo tipo di fisicità costituito dalla casa. Anche Vassalli in questo caso è uno scrittore che vede l’architettura per lo meno come schermo importante da attraversare; diversamente, è naturale, dal caso di Del Giudice che invece la guarda da dentro.
Un brano letterario le ha mai ispirato un progetto?
Non in senso diretto. Però penso a Thomas Mann: io ho un grande amore per “I Buddenbrook”, perché è la storia paradigmatica della borghesia, delle sue vicende interne, delle sue trasformazioni; la descrizione di quando viene ricostruita la casa per il matrimonio è significativa perché riporta molto bene il desiderio di rappresentazione, attraverso l’architettura, di una famiglia, di un uomo, di un gruppo sociale. Questo tipo di rapporto di rappresentazione, che in questo momento sono convinto non esista più (se c’è una crisi è proprio quella del referente, dell’elemento che ci sta davanti), è un episodio, una possibilità della letteratura che mi è sempre piaciuta, forse nostalgicamente.
Nel suo ultimo libro, “Diciassette lettere sull’ architettura”, lei propone alcune nozioni per un discorso sull’ architettura: semplicità, ordine, precisione, organicità, durata. Alcune di esse hanno una intonazione decisamente “calviniana”. Quali nozioni proporrebbe per la letteratura?
Si possono proporre le nozioni simmetriche a queste. Il compito della letteratura potrebbe essere simmetricamente quello di non essere organico, di non essere semplice, di guardare insomma la questione sull’altra faccia del foglio, perché, quando si esercita una certa pratica di lavoro, quando si progetta, che esista un’altra faccia misteriosa del foglio è un dato certo. Come architetti, per il tipo di lavoro che facciamo, di ragioni che dobbiamo rendere, il nostro dovere è quello di cercare di spiegare il foglio in modo più chiaro possibile. Però la curiosità dell’altra parte c’è, e trovo che quest’altra metà sia la letteratura.
Simenon per “progettare” un romanzo utilizzava una carta topografica della città di ambientazione e l’elenco telefonico per assegnare i nomi ai suoi futuri personaggi. Nella scrittura del progetto urbano, lei agisce da un punto prestabilito, con un obiettivo che inevitabilmente raggiungerà? O invece parte da una suggestione, lascia la possibilità che intervengano durante la scrittura degli “inattesi”?
Non parto mai da un principio, parto dal problema. Anche perché sono sempre stato abituato a lavorare con altri, collettivamente, a lavorare discutendo (dico sempre che l’architettura è un’arte collettiva). Quello che io cerco di fare è di mettere in relazione il problema specifico da un lato dentro il contesto nel quale devo lavorare, e dall’altro con un idea che ho dell’architettura, i suoi fondamenti, i suoi principi. Si tratta sempre di una specie di dialogo che io devo instaurare, plurimo, con il luogo, con il cliente, con le tecniche, con la mia tradizione disciplinare. Questo tessuto di diversi elementi mentre si costituisce può presentare dei buchi, degli elementi vuoti che ogni volta bisognerebbe rianalizzare, cioè individuare e spiegare perché si sono prodotti. Il processo è senz’altro quello di una indagine.
Allora, se mi permette la metafora, di una indagine interna al testo?
Assolutamente sì. Si comincia con una indagine che non ha niente a che vedere con quelle sociologiche o tecniche, ma riguarda le sue possibilità interne. È un processo che si sforza di rendere questo dialogo una figura.
Lei accenna anche al pericolo che si nasconde nella “narrativizzazione” della fase progettuale …
Uno dei pericoli dell’architettura è l’eccessiva soggettivizzazione, il tema dell’ossessione dell’espressione. Un’ossessione che poi rende banale l’espressione o la fa diventare espressione di pregiudizi, una forma di ascolto nei confronti di se stessi che non porta da nessuna parte. Credo invece che sia necessario ascoltare le altre cose che ci provengono, impostare un dialogo con gli altri materiali, fare in modo di accumulare questi materiali e poi di selezionarli, ma non di partire dall’espressione di sé. Perché la narrazione è sempre una narrazione di sé dei propri eventi dei propri sentimenti, e tutto questo, se c’è, emerge comunque nel modo di costruire le cose; ma è un’emersione che deve avvenire attraverso le cose, non in modo diretto. Uno crede che aprendo il proprio animo riesca ad uscire dall’omologazione complessiva, ma non è così, per uscire dall’omologazione bisogna fare un lavoro più complicato.
Il manifesto dell’ultima Biennale di Venezia recitava “Più etica e meno estetica” …
Purtroppo il manifesto della Biennale, secondo me, è una summa di equivoci. C’è una specie di doppia mistificazione a cui sono assolutamente contrario: la prima è svelata dal fatto che quella Biennale è stata una delle più estetiche che io abbia mai visto nella mia vita, con questo tentativo disperato da parte di architetti di somigliare a degli artisti (in un momento, tra l’altro, in cui gli artisti visivi sono al massimo della crisi); la seconda è che io non credo che occorra “Più etica e meno estetica”, ma che l’estetica debba essere etica. Se si crede che le due cose siano contrapposte, non c’è via d’uscita.
Quale può essere oggi lo spazio che la letteratura deve creare per recuperare una connotazione più decisamente etica?
È molto difficile poterlo dire. lo amo l’idea di una letteratura che sia in grado di riaffrontare il racconto, l’idea di una vicenda. Ammetto che sia una concezione molto ottocentesca, ma questo non importa; credo che con strumenti completamente nuovi si possa riaffrontare l’idea del racconto, della vicenda morale, personale, collettiva, ma soprattutto senza esagerazioni (questo mi sembra importante); perché c’è un gusto del grottesco che è diventato molto diffuso, insopportabile, penso ad esempio ai cosiddetti cannibali che lavorano sul grottesco, sull’esagerazione, sulla sproporzione. Bisogna avere un’idea della letteratura più amante della povertà. La povertà è una delle condizioni più odiate nel mondo moderno quando invece può essere anche una risorsa. Per citare sempre Benjamin, ha scritto delle bellissime pagine nel suo “Esperienza e povertà” parlando di quest’ultima come di un elemento dal quale ripartire.
Sempre nel suo ultimo libro, lei parla di come sia importante difendere il passato dall’oblio e quindi dalle forme di imitazione stilistica che ne sono uno degli strumenti: crede che sia un pericolo che corrono anche altre forme artistiche, in particolare la poesia?
Purtroppo sì, anche se in misura minore. La poesia non può fare a meno della memoria che agisce sempre nel testo poetico in modo estremamente importante. D’altra parte fino a poco tempo fa questo discorso valeva anche per gli architetti, perché gli architetti in fondo non pensavano mai di confrontarsi col futuro ma col passato. È solo adesso che c’è questa mania di proiezione verso il futuro: un po’ perché il futuro ci fa paura, un po’ perché il futuro per la civiltà contemporanea è diventato il tentativo di prevederlo. La memoria per la letteratura è assolutamente indispensabile, e penso che tra le arti sia quella più capace di trascinare con sé la propria memoria, o la memoria della propria strumentazione, i modi attraverso i quali si è confrontata con la realtà.
Più capace perché ha dalla sua la lingua e le sue stratificazioni?
Questo senza dubbio. Il linguaggio non è mai neutro (come la tecnica non è mai neutra) è sempre un materiale, non un mezzo. Nel caso della letteratura, la lingua è evidente che trascina con sé moltissimi elementi del passato.
Le sue frequentazioni poetiche?
Tra i contemporanei italiani ci sono due poeti simmetrici tra di loro, molto diversi, che io amo molto per ragioni assolutamente opposte: uno è Luzi, che non potrebbe essere più distante da me dal punto di vista del suo temperamento religioso; e l’altro è Sanguineti. Due persone più lontane fra loro penso sia difficile trovarle nel campo della poesia, anche nel modo molto diverso con cui trattano la lingua; però sono due poeti che sono riusciti a descrivere due bordi della nostra condizione che credo non debbano mai essere dimenticati.
Nella “lettera” che dedica a Daniele Del Giudice, lei discute il fascino e il pericolo insito nella sostituzione dell’immagine dell’ esperienza all’esperienza stessa, come sostiene anche Baudrillard: la letteratura può essere “complice” di questo processo?
La letteratura è ampiamente complice di questo delitto proprio per il suo potere, per la sua capacità di influenzare. Molta letteratura rimane affascinata da un materiale improprio rispetto a sé, da un materiale della virtualità di cui non ha bisogno. Ed è, quello della virtualità, un discorso infruttuoso perché non è ancora passato attraverso un’esperienza che è quella poi con cui la letteratura può ricostruire un rapporto col mondo. Quando fra venti, cinquant’anni, il mondo della virtualità, dell’immateriale, avrà finito di essere una specie di novità a cui tutti guardano in modo salvifico, può darsi che diventi una materia sulla quale è possibile discutere. Oggi secondo me è una materia più corruttrice che positiva.
Per usare il suo lessico, come può la letteratura tentare di essere formativa invece che in-formativa?
Per essere letteratura non deve essere in-formativa. Se abbiamo un problema in questo momento è di essere bombardati continuamente dalle informazioni e non sapere come distinguerle. La struttura della letteratura allora deve essere la sua non informatività: la riflessione sull’esperienza, non l’informazione sull’esperienza.
Foto: https://www.nytimes.com/2020/03/16/arts/vittorio-gregotti-dies.html