Archivi del mese: aprile 2020

Con puntuale ritardo e incredibile coerenza – nota su “Guida il tuo carro sulle ossa dei morti” di Olga Tokarczuk

Con puntuale ritardo e incredibile coerenza.

Recensioni, note, appunti.
Brevi più o meno, in affanno, come sempre per «Versodove» in cui tutto si costruisce col rigore millimetrico di essere qui con “incredibile coerenza”, ma sempre “in ritardo”, dislocati innanzitutto rispetto a se stessi.
Ci proviamo a leggere, non solo in privato, ma rendendo conto in chiaro di quanto sopraggiunge nelle nostre mani di libri d’ogni fatta a cui vorremmo dare uno spazio seppur esile di risonanza. Un terzo tempo di incontro, di dialogo che resti segnato, detto trascritto. E nello stesso tempo un saluto, un congedo, un augurio.

La redazione


Leggere Olga Tokarczuk è un’esperienza sconcertante. Si diverte a scombinare i luoghi comuni, si fa beffe delle convenzioni del racconto, ribalta le prospettive. Nei Vagabondi, per esempio, crea piccoli romanzi autosufficienti, ognuno con una ferrea logica interna, ma che confondono il lettore, il quale capisce troppo tardi di essersi perso dentro un labirinto. Capite che, per un libro che parla di viaggi e migrazioni, infilare un lettore dentro un labirinto è un ottimo risultato. Adesso Bompiani ha ripubblicato il suo Guida il tuo carro sulle ossa dei morti, già uscito per Nottetempo, sempre con la traduzione di Silvano De Fanti. Guida il tuo carro sulle ossa dei morti, che prende in prestito il suo splendido titolo da Blake, è un giallo antispecista, ovvero una narrazione che tiene in sospeso il lettore su chi sia l’assassino e al tempo stesso mette in discussione il secolare e finora indiscusso primato della vita umana sulla vita animale. Ci sono molti animali, qui, e sono decisamente più amati degli uomini. Ci sono anche degli esseri umani, ma molti di essi appartengono a quel genere di esseri umani che pensano che un cane non capisca niente. Ci sono anche altri esseri umani, nel romanzo, quel tipo di creature marginali a cui nessuno bada, perché non sono granché produttivi e men che meno di successo. C’è la lingua delle stelle, che secondo la protagonista, un’anziana e bizzarra insegnante d’inglese appassionata di astrologia, possiede tutte le risposte, basta far loro le domande giuste. Lei, Janina Duszejko, non si limita a desiderare un mondo più giusto per le sue creature, gli impone di essere giusto. E’ un mondo curioso, il suo, dove stare fermi è più importante che muoversi, non avere niente è meglio che accumulare ed essere malati è una condizione migliore che essere sani: “La salute è una condizione incerta e non promette niente di buono” (impossibile non pensare a Svevo). Il romanzo dei nostri tempi, in breve.

Marilena Renda

 

Olga Tokarczuk, Guida il tuo carro sulle ossa dei morti, Bompiani 2019, traduzione di Silvano De Fanti, pp. 262, 18 euro.

 

Olga

 

Foto in evidenza tratta da: http://europejskipoetawolnosci.pl/


“Scrivile che sono vivo” – una lettera inedita di Paul Celan

Per celebrare l’anniversario dei 50 anni dalla morte di Paul Celan (20 aprile 1970), proponiamo una lettera dal carteggio Paul Celan e Erich Einhorn, Du weißt um die Steine… (Tu conosci il significato delle pietre…)Friedenauer Presse Berlin 2001.

Traduzione e commento di Anna Ruchat.

 

Einhorn è un amico di giovinezza di Paul Celan a Cernowitz, che, dopo essere stato ufficiale nell’esercito sovietico, lavorò a Mosca dapprima come insegnante di lingue (rumeno e italiano) poi come traduttore. A una prima lettera di Celan del 1944 in cui quest’ultimo informa l’amico della morte dei suoi genitori e chiede notizie, seguono altre 15 lettere tra il 1961 e il 1967, in cui il tema è la lingua russa, la poesia, le traduzioni di Esenin, Blok e Mandel’stam. Il riemergere di Celan dalle nebbie del passato e dell’esilio è una boccata di ossigeno per Einhorn, esiliato a sua volta nella Russia sovietica. Ma anche Celan appare desideroso di riagganciare quel rapporto stretto intorno al filo delle origini, della parola scritta, della lingua russa, della traduzione.

 

Kiev, 1. Luglio 1944

Mi trovo a Kiev (in trasferta)[1] per un paio di giorni ed è con gioia che colgo l’occasione di scriverti una lettera che ti raggiungerà presto.

I tuoi genitori[2] stanno bene, Erich, ho parlato con loro prima di venire qui. è già molto, Erich, non puoi immaginarti quanto.

I miei genitori[3] sono stati fucilati dai tedeschi. A Krasnopolka, sul Bug.

Erich, ah, Erich.

Caro Erich, dov’è Tanja Adler[4]?

So soltanto che è viva, ma dov’è? Scrivile, Erich, scrivile che sono vivo, che la prego di scrivermi. Al mio vecchio indirizzo. C’è molto da raccontare. Ha visto così tanto tu[5]. Io ho vissuto solo umiliazioni e il vuoto, un vuoto infinito. Forse potrai tornare a casa. Konrad Deligdisch[6] è tornato.

La signora Alper, la nostra buona signora Alper[7], è morta… Gerta è a Cernowitz.

Erich, ti prego, scrivi a Tanja, o magari spediscile un telegramma.

Dov’è Erika[8], sua madre non sa niente di lei

Ti abbraccio, Erich

Il tuo vecchio

Paul

 


[1]) Viaggio di servizio di Celan che allora lavorava come infermiere in una clinica psichiatrica di Cernowitz. Il lavoro gliel’avevano procurato Jakob Silbermann e Hirsch Segal per evitargli il servizio militare nell’esercito sovietico, dopo che, nel 1944, l’esercito sovietico aveva riconquistato Czernowitz.

[2]) I genitori di Erich Einhorn, Rosa e Moses Einhorn, riuscirono a sfiggire alla deportazione. Continuarono a vivere a Cernowitz fino alla morte di Moses Einhorn nel 1960, dopo di che Rosa Einhorn si trasferì a Mosca da suo figlio. Morì nel 1971.

[3]) Leo e Fritzi Antschel erano stati deportati nel giugno del 1942 in Transnistria nel tratto meridionale del Bug. Dalla cava di Cariera de piatră sulla riva occidentale del Bug, furono trasferiti in un campo a otto chilometri di distanza nel villaggio di Layzino. Di lì il 18agosto 1942 arrivarono nel villaggio di Michailovka. La madre di Celan lavorava alla mensa del campo. Il 17 settembre portarono Leo Antschel a Gaisin. Con il sopraggiungere del freddo, ormai del tutto privo di forze fu ucciso oppure, secondo altri racconti, morì di tifo. Pare che Celan abbia ricevuto la lettera di sua madre con la notizia della morte del padre nel campo di lavoro di Tabaresti quello stesso autunno. La notizia della morte della madre lo raggiunse nell’inverno del 1943 tramite un parente, BennoTeitler che era riuscito a scappare da un campo. Non si sa di più. Come si evince dalla lettera a Einhorn Celan doveva sapere delle cose in più o diverse sul destino dei suoi genitori e sulle circostanze della loro morte. Cita anche il il luogo in cui tutto sembra essere accaduto «Krasnopolka, sul Bug». Il villaggio di Krasnopolka o Krasnopolki si trova a est di Gaisin.

[4]) Tanja Adler-Steinberg era una degli amici più vicini a Celan. Originaria della Bessarabia, durante la guerra andò in Russia, lì si è sposata ed è poi tornata a Cernowitz con un figlio. Negli anni Settanta è emigrata in Israele dove è morta nel 1994.

[5]) Erich Einhorn fu trasferito con l’università di Cernowitz prima a Stavropol e poi nel 1942 a Os, in Kirghisia. Nel maggio del 1944 si trovava a Rostov sul Don dove era iscritto alla facoltà di storia. È lì che deve averlo raggiunto la lettera di Paul Antschel.  Dopo che fu richiamato, nel settembre del 1944, lavorò come interprete per l’esercito da giugno del 1945 a marzo del 1946 in Germania e da marzo del 1946 a gennaio del 1949 in Austria.

[6]) Konrad Deligdisch faceva parte anche lui del giro degli amici di Paul Celan. Come Erich Einhorn e molti altri studenti che erano stati evacuati con l’università di Cernowitz, andò in Russia ma già nell’estate del 1944 fece ritorno, sposò Gerta Alper e emigrò con lei negli Stati Uniti. Morì nel Montana nei primi anni 2000.

[7]) La signora Alper, i suoi due figli e la figlia Gerta negli anni1938-39, dopo la deportazione dei genitori, sono le persone più vicine a Paul Antschel. Anche Erich Einhorn fa parte di quella cerchia. Gerta e i suoi genitori furono deportati a loro volta dai tedeschi in Transnistria dove la signora Alper morì di tifo.

[8]) Erika Brettschneider, un’amica di Erich Einhorn. Morì durante la guerra.


Dal n. 21 di Versodove: “M’insogni tüt i not da ves parola” – una poesia di Davide Ferrari

Vi proponiamo una delle sei poesie in dialetto pavese (nella variante di Lardirago) di Davide Ferrari pubblicate sul n. 21 di Versodove.

 

M’insogni tüt i not da ves parola

mola asè par daslenguam e pö vegh

al corp da mola che in dal sogn l’afila

tüt i sogn ca vegna dop. M’insogni una

parola e son la vus, la lüs, e in un

secund e mes son in s’la l’üna a ved

se l’üna o l’altra bala ien asè

par scund ca suma bel e gnent o set

miliard spudà al Big Bang, al sogn d’i son,

ai sogn ch’i g’hän culur di occ, furma ad

parol.

 

Sogno tutte le notti di essere parola

molle abbastanza per sciogliermi e poi avere

il corpo da mola che nel sonno affila

tutti i sogni che vengono dopo. Mi sogno una

parola e sono la voce, la luce, e in un

secondo e mezzo sono sulla luna per vedere

se l’una o l’altra palla sono sufficienti

per nascondere che siamo un bel niente o sette

miliardi sputati al Big Bang, al sonno dei suoni,

ai sogni che hanno colore degli occhi, forma di

parole.

 

Davide Ferrari (1983), attore e regista, ha pubblicato le poesie di La cenere dei bordi (Subway Edizioni, 2013); il poemetto Eppure c’è una meta per quel fiato di universo (Subway Edizioni, 2014) e Dei pensieri la condensa (Manni, 2015), in dialetto pavese, con prefazione di Franco Loi. Conduce laboratori di teatro e scrittura creativa con i detenuti della Casa Circondariale di Pavia e di Voghera dove dirige la compagnia Maliminori. Fa parte del Sabir Ensemble, che propone brani originali e riarrangiamenti di canzoni ispirate alle tradizioni e culture del Mediterraneo.

 

Foto di Tiziana Cera Rosco, tratta dal n. 21 di Versodove.