«Il luogo della poesia è un luogo umano, “un luogo nell’universo”, certo, ma che si trova quaggiù, nel tempo.» Scriveva Paul Celan in un saggio radiofonico del 1960 dedicato a uno dei poeti da lui più amati, Osip Mandel’stam.
Il grande balzo in avanti della critica tedesca nel doppio anniversario – nato a Czernowitz, (città asburgica fino al 1918, poi rumena, poi sovietica, oggi ucraina), il 23 novembre 1920, Celan morì suicida a Parigi alla fine di aprile del 1970 –, consiste proprio nel restituire alla poesia di Celan il rapporto con la storia, ora conosciuto nel dettaglio, che la rende tanto più potente.
Figlio unico di genitori ebrei (la madre di lingua tedesca, il padre rumena) Paul Antschel (Ancel in rumeno, poi anagrammato a Parigi in Celan) frequentò scuole ebraiche, tedesche e rumene fino alla maturità, in un ambiente estremamente vivace da un punto di vista sia linguistico che intellettuale. Le sue prime poesie, più convenzionali, risalgono al 1938, anno in cui, per evitare le leggi antiebraiche s’iscrisse alla facoltà di medicina di Tours, da dove rientrò prima dello scoppio della guerra. Nel 1939 s’iscrisse alla facoltà di lettere rumena e poi russa (1940-41) di Czernowitz. Nel 1942 poco dopo l’occupazione tedesca i genitori furono deportati nel campo di Michailovka dove il padre morì di tifo e la madre fu uccisa. Paul Antschel, per sfuggire alle deportazioni trascorse 2 anni (1942-44) nel campo di lavoro di Fälticeni (Romania).
A Cernowitz nel 1944 quando Celan, riprese gli studi, la poesia era qualcosa di vivo, scrive Wolfgang Emmerich in una sorta di biografia – la sola uscita per l’anniversario – in cui tutta la vita di Celan viene ripercorsa nel segno del rapporto con la Germania, con i tedeschi e soprattutto con la lingua tedesca Nahe Fremde, Paul Celan und die Deutschen (Vicina estraneità, Paul Celan e i tedeschi, Wallstein, pp. 400, 26 €). Negli incontri serali tra giovani poeti e amici di origine ebraica, racconta Emmerich, si parlava, si commentavano i primi resoconti giornalistici sullo sterminio e sui campi, si leggevano versi, s’improvvisava, in lingua tedesca. È in questo contesto che nasce la poesia Fuga di morte alla cui genesi è dedicato un libro di Thomas Sparr ricco di documentazione anche inedita Todesfuge Biographie eines Gedichts, (Fuga di morte, biografia di una poesia, DVA Verlag, pp. 350, 22 €).
Questa esperienza primaria del fare poesia si riverbera poi su tutta l’opera. «Forse», scrive sempre Wolfgang Emmerich «non c’è – a parte i giochi di parole dell’epoca di Budapest e le poche poesie per bambini – una sola poesia di questo autore in cui non sia presente un ricordo, anche mediato, dello sterminio degli ebrei.» Già nel 1998, occorre ricordarlo, Giuseppe Bevilacqua, nel saggio introduttivo al Meridiano Mondadori, Eros–Nostos–Thanatos, affrontava coraggiosamente, pur non avendo ancora a disposizione gli straordinari materiali che vengono pubblicati ora, un discorso «globale» su Celan in chiave storica. Un discorso che poteva allora apparire banale solo a chi non conosceva l’ambito in cui si muoveva la critica celaniana sia francese che tedesca, tesa a decurtare drasticamente o a passare in secondo piano il dato storico a favore, come scriveva lo stesso Bevilacqua, di «una pretesa assoluta autoreferenzialità, la quale non lascia più alcuno spazio fuori dei confini di una sofistica analisi del “farsi del poema” e del suo “materiale linguistico”».
Ciò che cambia dunque, nelle uscite di questi ultimi anni, oltre all’accessibilità di documenti e materiali che vent’anni fa non erano disponibili perché ancora secretati nell’archivio di Marbach, è la disponibilità a leggere tutta la parabola celaniana dentro la trama sottile del suo dialogo costante con il tempo, come accade nel bel saggio di Emmerich. Si prende atto della contraddizione profonda in cui la poesia di Celan era iscritta: la realtà di una lingua, afferma lo stesso Celan, che è «lingua madre e lingua degli assassini». Ma anche, come scrive Emmerich, la realtà di un paese, la Germania Federale, cui quella lingua apparteneva e in cui «migliaia di persone», e tra questi anche accademici e scrittori, «solo quindici o vent’anni prima avevano collaborato se non addirittura aderito al regime nazista.» Già nel 1946, in una lettera da Bucarest, Celan scriveva al critico svizzero Max Rychner che fu uno dei suoi massimi sostenitori: «Voglio dirle quanto sia difficile, da ebreo, scrivere poesie in lingua tedesca. Quando le mie poesie verranno pubblicate, arriveranno probabilmente anche in Germania e – mi lasci dire questa cosa raccapricciante – la mano che aprirà quel mio libro avrà forse stretto la mano dell’assassino di mia madre. Ma il mio destino è questo: scrivere poesie in lingua tedesca.»
Insomma si va, in questa seconda fase, verso quella che Michele Ranchetti all’epoca del suo lavoro sul libro di Ilana Shmueli Di’ che Gerusalemme è (Quodlibet 2003) definì una «ricostruzione degli elementi “realistici” all’origine dei versi», cosa che Ranchetti fino a quel momento aveva visto fare soltanto a due persone: Ilana, l’amica ritrovata di Czernowitz, che Celan andò a visitare in Israele poche settimane prima di gettarsi nella Senna e il critico ed ermeneuta Peter Szondi.
Pietra miliare dell’attuale cambio di paradigma, due colossali lavori: la nuova edizione delle poesie di Celan, con diversi inediti – Die Gedichte, neue kommentierte Ausgabe (Le poesie, nuova edizione commentata, Suhrkamp, 2018 pp. 1262, 78 €) e le 691 lettere che sono Etwas ganz und gar Persönliches Die Briefe 1934-1970 (Qualcosa di assolutamente personale, Le lettere 1934-1970, Suhrkamp, pp. 1285, 78 €). Entrambi i volumi analiticamente commentati da Barbara Wiedemann, comprendono 1300 pagine circa, di cui quasi la metà di commento. La Wiedemann, che da trent’anni si dedica con rigore impeccabile al lascito del poeta, di cui aveva già curato molti carteggi, tra i quali quello con Nelly Sachs, e l’altro più recente con Ingeborg Bachmann, ma anche con molti altri usciti nel corso degli anni, tra cui l’epistolario con Peter Szondi (che in Italia attende ancora un editore), quello imponente e anch’esso di grande interesse con la moglie, l’artista Gisèle Lestrange, e la corrispondenza di tutta una vita con il compagno di scuola e amico Gustav Chomed, fra gli altri. Di Barbara Wiedemann è anche l’edizione tedesca dei Microliti di cui Mondadori pubblica ora una nuova edizione (di cui si parla qui accanto).
Wiedemann raccoglie in ordine cronologico una scelta delle lettere scritte da Celan tra il 1934 e il 1970 a una gamma molto vasta di corrispondenti (quelle provenienti dai carteggi già editi sono poco più della metà), così da far emergere una sorta di «biografia interiore ed esteriore» dell’autore. Tratto fondamentale di questa biografia è il bisogno di muoversi tra le lingue, di tradurre. Molte lettere parlano di traduzioni, sia di quelle professionali (tra cui alcuni romanzi di Simenon) di cui Celan viveva nei primi anni a Parigi, sia di quelle poetiche (da Apollinaire a Valéry a Michaux, da Esenin a Mandel’stam). A Hans Magnus Enzensberger, che nel giugno del 1958 gli chiedeva delle poesie per la rivista “Akzente” risponde entusiasta: «Forse le posso proporre qualcosa di russo. Negli ultimi tempi ho infatti tradotto molto dal russo, soprattutto l’assolutamente straordinario Osip Mandel’stam.» Le lettere sono perlopiù in tedesco ma spesso anche in rumeno o in francese e qua e là di continuo si trovano frammenti di ebraico, di russo, a restituirci almeno in parte il crogiolo di lingue e culture in cui Celan aveva vissuto nella prima metà della vita.
Grazie alla scelta di Wiedemann possiamo così individuare percorsi trasversali scoprendo quali sono i temi che stanno al centro dell’interesse dell’autore in un determinato giro di mesi o di settimane, o seguire i singoli carteggi in senso cronologico e trovare corrispondenze tra lettere e poesie a distanza di molti anni. Nel 1938-39 ad esempio si passa dalla lettera ai funzionari della facoltà di medicina di Tours (dove Celan studiò per un anno), a quella nostalgica alla madre per il giorno della mamma, alla lettera a Gustav Chomed, in cui Celan racconta diffusamente della sua permanenza a Parigi e in cui accenna di essere passato all’andata in treno da Berlino appena prima della “notte dei cristalli”. Solo nel 1962 ricorderà quel viaggio nella poesia La Contrescarpe «Via Cracovia / sei arrivato alla stazione / di Anhalt / fluiva incontro ai tuoi sguardi un fumo /era già il fumo di domani.»
Il gruppo che appare più compatto è la rete dei corrispondenti ebrei alla quale appartengono, oltre ai parenti che vivono in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Israele, la maggior parte degli amici rimasti in Romania o nell’Unione Sovietica e poi conoscenti e colleghi da tutto il mondo. Alcuni di loro vengono originariamente dalla Germania o dall’Austria ma non tutti vi erano ritornati dopo la guerra. «Queste lettere hanno un carattere molto particolare» scrive Barbara Wiedemann «perché ci permettono di capire senza sforzo cose che altrimenti andrebbero spiegate faticosamente e che a volte proprio non si possono spiegare.»
C’è ad esempio Erich Einhorn, un amico di giovinezza di Celan a Czernowitz, che, dopo essere stato ufficiale nell’esercito sovietico, lavorò a Mosca dapprima come insegnante di lingue (rumeno e italiano) poi come traduttore. Celan gli scrive nel 1944, rientrato dai lavori forzati in, una lettera che è una conta dei morti e dei, la rievocazione di una comunità in parte scomparsa e in parte dispersa. Poi il carteggio si interrompe per molti anni e riprende nel 1962, sempre con una lettera di Celan: «Tutto è vicino e niente è dimenticato» scrive «benché da quattordici anni – o meglio: dal luglio 1948 – io viva a Parigi, sono, nei miei pensieri, spesso a casa e con gli amici di un tempo». Quella “casa [Heimat]” dove la poesia nasceva tra gli amici che si citavano l’un l’altro e parlavano in versi, al modo russo, è Czernowitz, un luogo scomparso, per lui, dalla carta geografica, «un luogo sommerso», che esiste però nell’anima, come scrive nel giugno 1960 lo stesso Celan rifiutando un omaggio al suo luogo d’origine, all’amico Milo Dor, scrittore e avvocato viennese, uno dei corrispondenti più assidui.
Il punto di svolta nella vita (e quindi nei carteggi), sono le accuse di plagio che la vedova del poeta rumeno Yvan Goll gli muove a partire dal 1956. «Domenica scorsa sono stato da Yvan Goll» scrive nel novembre 1949 all’amica Erica Illegg, conosciuta a Vienna. «Un vero scrittore. Un essere umano. Il primo che incontro da quando sono a Parigi. Un tempo scriveva in tedesco, ora quasi solo in francese. È alsaziano.»
Celan aveva conosciuto Goll, già molto malato, nel ’49, poco dopo il suo arrivo a Parigi. Gli aveva mostrato le sue poesie e Goll gli aveva detto, come scrive sempre nella lettera all’amica Erica: «Lei non è uno che scrive poesie, Lei è un poeta.» Il rapporto di fiducia si era stretto tanto in quei pochi mesi, che Celan divenne con la moglie di Goll, suo esecutore testamentario nonché traduttore delle ultime opere in francese. Nel mese di maggio del 1960 (c’erano già state delle avvisaglie nel 1953 e nel 1956) Claire Goll dà il via, con un articolo sul «Baubudenpoet», a un’accanita campagna denigratoria contro Celan, vincitore designato del premio Büchner. Le accuse si riferiscono al supposto plagio dalle sillogi in lingua francese di Yvan Goll che Celan stesso aveva tradotto.
A quella vicenda molto complessa che riporta in primo piano la questione della rimozione della shoah e dell’antisemitismo strisciante nella società tedesca, Barbara Wiedemann ha dedicato un libro parecchi anni fa, Paul Celan, Die Goll-Affäre Dokumente zu einer “Infamie” (Paul Celan, L’affare-Goll, documenti per un’”infamia”, Suhrkamp, 2000, pp. 926, 82 €).
A partire dal 1956, Celan mobilita tutta la sua rete di corrispondenti – tra i molti Heinrich Böll, Günter Grass, Max Frisch, René Char … – ma tutti o quasi finiscono per deluderlo, (se non altro transitoriamente, come il suo paladino Szondi), chi cercando di minimizzare chi, come Heinrich Böll o Alfred Andersch, «se ne lava le mani», scrive Celan al critico Walter Jens. «A causa delle reazioni, molte amicizie pluriennali vanno in pezzi», soprattutto quelle con i colleghi tedeschi, scrive Barbara Wiedemann nella postfazione alle lettere, «e non pochi credono di cogliere nelle esasperate risposte di Celan i segnali della malattia psichica».
«[…] Madre, loro tacciono. / Madre, loro sopportano che / la perfidia mi diffami. / Madre, nessuno / agli assassini ferma la voce. // Madre, loro scrivono poesie […]», scrive Celan in Bacca di lupo, il 21. 10. 1959. Il poeta non risponde agli attacchi sui giornali, lascia che intervengano per lui prima Peter Szondi e poi Klaus Demus, Ingeborg Bachmann e Marie Luise Kaschnitz. «C’è qualcosa che nessuna infamia mi può togliere», scrive il 9 agosto 1960 a Otto Pöggler, «è il mio tacere, il mio argomentato tacere.» E così, sulle barricate di questa incongrua battaglia, avviene l’estenuante addio alla lingua-madre e sembra avverarsi la profezia di Tubinga, gennaio quando Celan, l’«Hölderlin del ventesimo secolo» come lo definiva Nelly Sachs, scriveva: «Venisse, / venisse un uomo, / venisse un uomo al mondo, oggi, con / la barba di luce dei / patriarchi: potrebbe, / se parlasse di questo / tempo, lui / potrebbe / solo balbettare e balbettare […]»
Anna Ruchat
L’articolo è apparso con qualche modifica su “Alias” del 28 giugno 2020.
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Si pubblica qui la traduzione di una poesia dal libro di Thomas Sparr sulla genesi della poesia di Paul Celan Fuga di morte appena pubblicato in Germania. Il volume ricostruisce le circostanze biografiche, storiche e geografiche in cui quei versi, così centrali per il Novecento europeo, sono nati. La poesia Fiocchi neri, precedente a Fuga di morte, “rielabora” quella che è presumibilmente l’unica lettera che la madre di Celan – deportata nel giugno del 1942 nel campo di Michailovka con il padre, e lì uccisa – inviò al figlio. Paul Celan nel 1943, quando scrisse questi versi, si trovava nel campo di lavoro di Rădăşeni:
Fiocchi neri
Neve è caduta, senza luce. Una luna
è già passata, o due, da che l’autunno sotto il saio del monaco
ha portato anche a me un messaggio, una foglia dalle discariche ucraine
«Pensa che inverna anche qui, per la millesima volta ora
nel paese, dove scorre il fiume più largo:
il sangue celestiale di Giacobbe, invidiato dalle scuri…
Oh, ghiaccio di un rossore ultraterreno – guada il suo caporale con tutta
la truppa dentro i soli oscurati… bambino, ah un telo
per avvolgermi dentro, quando scintillano gli elmett
quando la lastra di ghiaccio, quella rosata, si spacca,
quando polverizzate turbinano come neve le ossa
di tuo padre, sotto gli zoccoli scricchiola
il dolore del cedro…
Un telo, un piccolo telo anche stretto, che custodisco
ora che tu stai reimparando a piangere, al mio fianco
la stretta del mondo, che non inverdisce mai, bambino mio, al tuo bambino!»
Col sangue, madre, l’autunno mi ha spazzato via, la neve mi ha bruciato:
ho cercato il mio cuore, perché piangesse, ho trovato il soffio,
il soffio dell’estate,
era come te.
Mi è venuta una lacrima. Ho tessuto il piccolo telo.
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