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L’artigianato della grazia: un ricordo di Franco Battiato

È uno dei ricordi più piacevoli della mia – ma credo di poter dire: della nostra – avventura a Versodove. Franco Battiato era a Modena per un concerto, Alessandro di Prima, agevolato dalla sua catanesità, aveva fatto da apripista con Manlio Sgalambro, insomma il Maestro e il Filosofo avevano detto di sì alla nostra richiesta di una intervista.

Ci incontrammo in hotel, e mentre Sgalambro fissava Alessandro, Fabrizio Lombardo, Vincenzo Bagnoli e me con aria perplessa e un po’ torva, Battiato fu di una cortesia sorprendente, almeno per noi che non lo conoscevamo. Sorridente, curioso della nostra piccola impresa letteraria, aperto a discutere di qualsiasi cosa, addirittura premuroso. Più che una intervista fu una chiacchierata, piena di lampi interessanti, di ironia, di colpi di genio linguistici – «mi sento un manichino manicheo» – di piccole illuminazioni. E di dolcezza. La potete leggere qui sotto, oggi che il Maestro non c’è più e il rimpianto di non aver più potuto ascoltare, negli ultimi anni della malattia, la sua voce insieme mistica e disincantata, che non può permettersi di «perdere la lezione eterna e determinante datami magari da un fattorino mentre porta i bagagli», come ci disse provocando allegramente il severo ma in fondo divertito filosofo; la malinconia per la sua scomparsa si stempera un po’ nel ricordo ancora vivo, ancora emozionante di quel pomeriggio modenese.

Stefano Semeraro


In copertina: Franco Battiato, foto di Chiara Mirelli


“Edipo nel Caveau: leggo quindi lotto” – estratto dell’intervista a Yanis Varoufakis uscita sul n.20 di Versodove

Estratto dell’intervista realizzata da Giorgia Karvunaki a Yanis Varoufakis uscita nel 2018 sul n. 20 di Versodove.

Si dice che la critica oggi sia in difficoltà, che faccia fatica a capire la letteratura, l’arte, e a spiegarla al pubblico. Secondo lei è così?

La critica per definizione deve confrontarsi con la difficoltà, nel momento in cui deve confrontarsi con l’analisi e l’interpretazione e ricavarne dei concetti. Se non fosse difficile, questo lavoro non sarebbe interessante. Le grandi opere teatrali e letterarie non sono mai determinabili una volta per tutte. È difficile comprenderle nella loro totalità. E devono essere inesauribili: ogni volta che le leggiamo, dobbiamo trovare qualcosa di diverso. Il che significa che il critico affronta delle enormi difficoltà, ed è giusto che sia cosi. Il critico viene valutato in base a quel qualcosa in più che ci dà, per poter capire meglio un’opera teatrale, un libro.

La crisi’ e la globalizzazione’ secondo lei influenzano il nostro modo di pensare, di conseguenza influenzano anche la letteratura in generale e la drammaturgia contemporanea in particolare, sia in Grecia sia all’estero?

 Assolutamente sì. La poesia, il teatro, la letteratura non sono che l’espressione del nostro modo di pensare: modo che viene plasmato dalla nostra quotidianità, dalla nostra vita. Ogni volta che viene usata la parola globalizzazione, sento il bisogno di dare una definizione di quello che intendiamo usandola. È un termine distorto. La globalizzazione è iniziata quando le prime persone se ne sono andate dall’Africa e hanno colonizzato gli altri continenti. Questa è la nostra origine, si sa. La globalizzazione va dunque di pari passo con il genere umano. Il termine però nell’ultimo periodo, dopo il crollo del blocco sovietico e in particolar modo dopo il 1991, viene usato per indicare che il capitale finanziario ha ruota libera. Perciò, quando parliamo oggi di globalizzazione, stiamo in realtà parlando di due fenomeni paralleli. Da una parte parliamo dei banchieri che possono fare quello che vogliono. Premendo solo un bottone possono trasferire dei miliardi da qui a Singapore, da Singapore nel Vietnam, dal Vietnam in Corea, dalla Corea in Svizzera. Premendo solo un bottone. Stiamo quindi parlando della globalizzazione del capitale finanziario. Dall’altra parte, nel giro di un anno più o meno, abbiamo avuto due miliardi di persone che sono state inserite improvvisamente nel mercato capitalistico del lavoro. Ciò è accaduto nel momento in cui, dopo il crollo del blocco sovietico, le persone che hanno abbandonato il sistema comunista sono entrate nel mercato del lavoro, vendendo il loro lavoro, mentre contemporaneamente anche la Cina entrava a far parte del sistema capitalista. Questo è la globalizzazione. E ha cambiato tutto. Una gran parte del Terzo Mondo è stata trasferita in Europa e in America, e non parlo degli immigrati naturalmente. Sto parlando della povertà. Intere zone industrializzate in Inghilterra, per esempio, ora sono abbandonate, impoverite. E una parte del Primo Mondo è andata nel Terzo. Tutto questo non poteva non influenzare il nostro modo di pensare.

La sua domanda mi ha riportato in mente il compito difficile che ho dovuto svolgere il 9 aprile. Mi hanno invitato a Londra, al Royal Festival Hall, per parlare della globalizzazione, in occasione della presentazione alla Hayward Gallery delle opere di Andreas Gursky, il famoso fotografo tedesco. Nelle sue foto Gursky cerca di imprimere quello di cui stiamo parlando, la società che si sta globalizzando. E mi sono trovato davanti al difficile compito di scrivere un discorso in cui associare la mia posizione politico-economica relativa alla globalizzazione e la rappresentazione artistica del fenomeno.

Se ci sono riuscito lo devo anche a Danae Stratou, mia moglie, autrice di installazioni. Abbiamo realizzato insieme un’opera che abbiamo chiamato Il muro che si sta globalizzando. È un suo video basato su miei testi. Quindi questa influenza reciproca tra analisi politico-economica e approccio non solo artistico ma anche letterario, in senso lato, ai problemi della globalizzazione è una cosa di cui mi occupo da tempo.

Un’intera società/civiltà in crisi (non solo la Grecia, forse tutta l’Europa) può avere bisogno di una terapia per la psiche? La psicoterapia nacque proprio pochi anni prima di quella prima guerra mondiale che aprì un secolo “terribile”. Oggi abbiamo forse bisogno di nuove terapie per la psiche delle collettività? La letteratura può svolgere questo ruolo?

 La mia opinione riguardo a questo argomento direi che è radicale, e sicuramente non favorevole. È un argomento che non mi interessa. Ora naturalmente non ho tempo, non me ne occupo, ma avevo letto in passato Jung, Freud, Lacan e tutti i grandi della psicanalisi. E perché sono contrario all’industria della psicoterapia. È nota a tutti l’ondata statunitense della cessione della salute della psiche nelle mani degli specialisti. E come gli economisti non sono gli specialisti dell’economia, altrettanto o molto di meno gli psicanalisti, gli shrinks (gli strizzacervelli) come vengono chiamati negli Stati Uniti, e gli psicoterapeuti, sono gli specialisti dell’anima. Il lavoro degli psicoterapeuti aumenta, quando cala la capacità delle persone di reagire all’interno di una società che gli scaccia nei suoi ingranaggi. Le famiglie, quelle più ricche specialmente, estraniate dalla loro esistenza, non dialogano più, svanisce il minimo scambio tra i loro membri e, avendo soldi a disposizione, fanno un subcontracting (subappalto): uso il termine inglese in quanto sembra proprio una strategia aziendale. Nostro figlio non sta bene, ha dei problemi psicologici, allora lo mandiamo dallo psicologo.

Contemporaneamente si nota che nel mercato del lavoro dei funzionari di livello medio-alto, di quelli che hanno intenzione di diventare dirigenti – sono la maggior parte dei nostri studenti universitari – quelli che studiano marketing, che fanno master in business administration, sono disposti a fare di tutto per arrivare al posto desiderato.

Fino a poco tempo fa le nostre società funzionavano in base alla netta separazione tra lavoro e vita. Dalle 09.00 alle 17.00 si lavorava. Abbiamo sudato come società per ottenere questo orario. Venivano vendute, o salariate da un datore di lavoro, otto ore della vita del lavoratore, per fare un lavoro ben preciso. Il lavoratore non si immedesimava al suo lavoro. La sua vita personale iniziava dalle 17.00 in poi. Il suo lavoro poteva anche piacergli, ed era certo meglio così, se era anche un suo passatempo. Veniva comunque separata nettamente la persona che andava a lavorare e produceva valore e plusvalore per il datore di lavoro dalla persona che dopo le 17.00 rientrava a casa, leggeva un libro, andava a teatro.

Oggi i ragazzi sono costretti a vendere sé stessi ai datori di lavoro come se dovessero vendere un brand. Esattamente come fanno Adidas, Nike, Coca Cola, Apple: i loro prodotti vengono prodotti altrove, e loro, come ditte, vendono solo il brand, l’immagine. Allo stesso modo i giovani sono costretti a vendere sé stessi, come immagine, come un insieme di cose: durante i colloqui non parlano solo di quello che possono offrire alle aziende, ma viene controllato quello che scrivono su FaceBook, su Twitter. Quindi vendono un insieme di cose oltre al loro lavoro; ed è quell’insieme di cose a fare la differenza, a determinare se il giovane verrà assunto con un buon salario o non verrà assunto affatto. Viene insomma valutato non solo quello che il giovane può offrire dalle 09.00 alle 17.00, ma fino a mezzanotte; viene valutato il tweet che il lavoratore può mandare, in quanto può rappresentare l’azienda agli occhi del mondo. Ed è questo insieme di cose che il datore di lavoro compra o salaria. E andrò oltre, avendo un’opinione radicale sulla questione. I datori di lavoro dicono agli intervistati: a noi interessa la vostra passione. Così gli intervistati devono individuare i lavori che sono inerenti alle loro passioni. Sembrerebbe una cosa buona avere come lavoratori persone appassionate al loro lavoro. Ma ciò fa sì che i ragazzi si trovino all’improvviso costretti ad andare alla ricerca delle loro passioni, a trovare motivazioni. Perciò si rivolgono in massa agli psicoterapeuti, per scoprire le loro passioni, per poterle vendere ai loro datori di lavoro.

In questo modo la psicanalisi e la psicoterapia diventano parte di un disturbo psichico, che poi alla fine diventa un disturbo redditizio per le tasche degli psicoterapeuti.

Quindi invece di avere, come ai tempi di Freud, uno psicoterapeuta che ti aiuta a superare i tuoi problemi, ora succede il contrario. Esiste un’interdipendenza tra il disturbo e l’industria della psicoterapia. 

E la terapia della psiche delle collettività?

 Quella di una volta. La musica, la letteratura, il buon libro e… l’azione. Non solo pensare ai nostri problemi ma passare all’azione, trovando delle soluzioni.

Come nella parola poesia, che deriva dal verbo ποιέω, ossia produrre, fare, creare

 

 

 

Yanis Varoufakis (Atene, 1961) professore di teoria economica all’università di Atene, è stato Ministro delle Finanze nel primo Governo Tsipras. Nel febbraio 2016 ha lanciato il Democracy in Europe Movement 2025, un movimento politico paneuropeo. Tra i suoi titoli più recenti in italiano: Il minotauro globale. L’America, le vere origini della crisi e il futuro dell’economia globale (Asterios, 2012); Confessioni di un marxista irregolare nel mezzo di una ripugnante crisi economica europea, (Asterios, 2015);  È l’economia che cambia il mondo: Quando la disuguaglianza mette a rischio il nostro futuro (Rizzoli, 2015).

Giorgia Karvunaki vive e lavora come intermediatrice – promotrice culturale e traduttrice ad Atene.

Photo: Socrates Baltagiannis


“Sciavi duri sensa lingua”: l’intervista di Franco Baldasso a Boris Pahor uscita sul n.16 di Versodove

Riproponiamo qui di seguito un estratto dell’intervista di Franco Baldasso a Boris Pahor uscita nel 2012 su Versodove. (Leggi l’intervista completa gratuitamente sul n.16 di Versodove cliccando qui).


In Italia è diventato un caso letterario tre anni fa, quando la casa editrice Fazi pubblicò per la prima volta in traduzione il suo libro maggiore, Necropoli. Sloveno e triestino, Boris Pahor ha dovuto attendere 40 anni per veder riconosciuta la propria caratura di scrittore europeo nel paese dove vive, dopo i molteplici riconoscimenti in Francia e Germania. “La storia del mio libro è già un romanzo”, ci racconta, e dopo innumerevoli rifiuti e una controversa storia editoriale Necropoli diventa un bestseller. “Il merito è di Alessandro Mezzena Lona, giornalista del Piccolo di Trieste”, racconta Pahor “che ha consigliato il mio libro alla casa editrice dopo tutti questi rifiuti”. Pahor parla del suo libro quasi con pudore, quasi sorpreso di essere al centro della propria storia. Necropoli non è solo una lucida testimonianza dei Lager nazisti, ma è soprattutto una riflessione sul loro valore, sui loro valori, nel momento del ritorno. L’uomo libero che visita silenzioso il lager di Natzweiler-Struthof, nelle montagne dei Vosgi in Alsazia, è il prigioniero scampato che ritorna nel luogo costruito appositamente per la propria morte. Non diversamente da un altro grande scrittore dell’universo concentrazionario, il nobel Imre Kertesz, Pahor riflette sulla civiltà che l’aveva destinato a quel luogo, creato il campo appositamente per lui, e intravede continuità che disturbano dove la politica e la cultura a lui contemporanee hanno stabilito rotture. È questa continuità la nota inquietante che il libro segnala, quella tra i campi nazisti e una storia di violenza taciuta, cominciata per Pahor a sette anni. Quando, spettatore impotente, i fascisti triestini nel 1920 danno fuoco al Narodni Dom, la “casa nazionale slovena” nella città da pochissimo italiana. L’incendio è la negazione non solo della possibilità all’autodeterminazione per la minoranza slovena in Venezia Giulia, ma della loro stessa esistenza. Sistematiche discriminazioni razziali, programmi di snazionalizzazione delle minoranze slave seguiranno sotto il regime. Il giovane Pahor non può andare a scuola, i suoi perdono il lavoro, la sua lingua proibita. Come egli stesso racconta, viene chiamato “sciavo duro sensa lingua”. Queste vicende sono narrate nei suoi racconti, ma anche nella interessante intervista di Mila Orlić, Tre volte No. Memorie di un uomo libero (Rizzoli, 2009).

Allo scoppio della guerra Pahor è costretto a combattere in Africa con l’esercito fascista, e come membro della resistenza “italiana” è arrestato dai nazisti dopo l’8 Settembre. Prima come tragedia, poi come farsa direbbe Marx: Pahor che combatte per gli Sloveni oppressi dal nazionalismo italiano, viene spedito in lager e costretto a morirvi da “italiano”. Pahor scrive in Necropoli che la sua salvezza è stata anche il rifiuto di questa arbitrarietà.

Ma il rifiuto di cui il libro si fa portavoce è anche e soprattutto l’assoluzione del dopo, generale aspetto della politica italiana. Non solo dell’immediato Dopoguerra. Anche in seguito al grande successo e alle ripetute apparizioni pubbliche, Pahor a 97 anni si ostina a protestare la propria perdita.

R. La casa editrice lanciò La mia Necropoli [sic] come una vera e propria scoperta. Quando uno pubblica un libro sui campi, mica si corre tutti a comperarlo, no? E invece ha avuto successo in tutta Italia, tanto che il sindaco di Trieste mi ha offerto di parlare in pubblico sul tema, ma ho rifiutato.

D. Il motivo?

R. Ho chiesto che si parlasse anche del fascismo, non solo di Necropoli. Non si può parlare solo di una tragedia: il fascismo ha rovinato 10 anni della mia gioventù. Ho dovuto imparare lo sloveno da autodidatta e la mia cultura nascondendomi. Non ci sono solo i crimini dei Nazisti e dei comunisti, le foibe… bisogna stare attenti alle cifre quando si parla di Olocausto italiano. Non si parla dei più di 100.000 sloveni e croati che hanno lasciato le loro terre durante il fascismo. Il problema è sempre quello di raccontare solo ‘una’ storia. Personalmente ho sempre grande piacere di incontrare i giovani – hanno desiderio di conoscere la storia, i miei libri li comprano non solamente per leggere dei crimini nazisti.

[…]

D. Si possono avvicinare il prolungato disinteresse per la sua opera e il mancato riconoscimento dei crimini di guerra in Italia?

R. ll circolo vizioso della pubblicazione della mia Necropoli è la conseguenza di questi “sciavi duri sensa lingua”. Storicamente l’imperialismo italiano è nato anche prima del fascismo, fin da Carlo Alberto. Io sono nato nel 1913 come cittadino austriaco, allora la mia non era una minoranza, lo sloveno la terza lingua. Gli italiani erano numericamente superiori. Giudicavano gli sloveni di Trieste perché erano soprattutto contadini che portavano i prodotti dalla campagna in città e lavoratori del porto, che servivano la borghesia triestina. E poi avevano interesse a denigrarci perché a noi non interessava l’unione con l’Italia, non ci conveniva diventare cittadini italiani. C’era un precedente storico: i cittadini del Friuli, i quali avevano vissuto per secoli sotto Venezia senza nessuna paura della snazionalizzazione. Quando nel 1870 il Friuli diventa parte dell’Italia, subiscono l’assimilazione forzata, anche prima dei fascismi che hanno continuato quanto aveva già cominciato l’Italia liberale. Noi nel ’18 avevamo combattuto dalla parte austriaca non per l’Impero ma per difendere le terre che sarebbero divenute italiane. Dopo la disfatta, gli Sloveni si sono trovati i più a mal partito tra i popoli dell’ex Impero Asburgico. Per salvarsi la Slovenia ha dovuto offrirsi a Belgrado. Nonostante fossimo da sempre Mitteleuropa, la Slovenia diventò per forza una sorta di ente Balcanico. L’idea federativa dietro alla ‘seconda’ Jugoslavia sarebbe stata positiva se non ci fosse stato il partito unico, e Tito come ‘Re’.

D. Come si situavano a livello culturale gli sloveni nella Jugoslavia titina?

R. Con questa situazione la Slovenia non poteva che essere ancora una volta perdente. Anche a livello culturale, uno scrittore sloveno per ottenere riconoscimento anche in Europa non aveva altra scelta che passare prima per Belgrado. Personalmente ero critico del comunismo come dittatura e insieme a mia moglie abbiamo diretto e sostenuto la rivista Zaliv (“Il Golfo”) dal 1966 al 2000, dove esponevo le mie idee e ospitavo quelle altrui perché la lotta di liberazione era stata pluralistica. Nel 1975, per un articolo pubblicato, mi fu proibito per un anno di entrare in Jugoslavia.

[…]

D. Mi racconta l’incontro con Imre Kertesz?

R. È stato molto bello. I francesi l’hanno organizzato nel semestre di presidenza della comunità europea. “Le Figaro” ci dedicò una pagina insieme con altri scrittori ‘dell’Europa Unita’. Lui tuttavia era ammalato e si è dovuto fare l’anno seguente. C’era gente che non poteva entrare nel teatro perché era tutto pieno. Lui ha parlato in ungherese tradotto, io in francese. Parlavamo su due binari paralleli, venivamo da diverse esperienze: io della questione slovena e di come nel campo non volevo morire da italiano – come ho scritto in Necropoli. Lui, ebreo, è stato a Buchenwald, da cui il campo di Dora dipendeva. Eravamo un po’ ‘soci’. Durante l’incontro ci siamo capiti anche quando Kertesz parlava di una ‘certa nostalgia del campo’. Io sono tornato due volte a dieci anni dalla guerra, con la mia vecchia Fiat. Io parlerei piuttosto di un bisogno piuttosto che una nostalgia: di fronte a quello che il mondo ha fatto di male dopo la guerra. Penso al Vietnam, a Pol Pot in Cambogia, più recentemente a Sarajevo e al trattamento ricevuto dalle donne musulmane, violate dai soldati serbi perché concepissero un servo ortodosso. La normale speranza di uno che si salva da un campo di concentramento è che qualcosa debba cambiare nella vita della gente, invece non è cambiato niente…

 

Boris Pahor è nato nel 1913 a Trieste. Laureato a Padova vi ha insegnato Lettere italiane e slovene. Durante la seconda guerra mondiale ha fatto parte della resistenza antifascista slovena ed è stato deportato nei campi di concentramento nazisti. Nel 2007 ha ricevuto la Legion d’Onore. In italiano, oltre a Necropoli (Fazi Editore 2008), sono stati pubblicati i suoi romanzi Il rogo nel porto, La villa sul lago e Il petalo giallo.

 

Foto: Claude Truong-Ngoc / Wikimedia Commons

 


La metropoli senza qualità: intervista a Zygmunt Bauman

Intervista di Alessandro Di Prima a Zygmunt Bauman tratta dal n.13 di Versodove.

Zygmunt Bauman (Poznań 1925 – Leeds 2017) ha insegnato Sociologia all’Università di Leeds. Ha pubblicato numerosi importanti saggi, fra i quali La decadenza degli intellettuali (Bollati Boringhieri 1992), Modernità e olocausto (Il Mulino 1992), La società dell’incertezza (Il Mulino 1999), Le sfide dell’etica (Feltrinelli 1996).

La letteratura, nel mondo globalizzato, può essere ancora uno spazio sociale, un momento di azione collettiva come intende la politica Claus Offe?

Ci sono due visioni per quanto riguarda il ruolo della letteratura nella cultura europea. Innanzitutto quella di Milan Kundera, che è stata influenzata da tutte le istituzioni della modernità classi­ca: non la modernità com’è oggi ma com’era duecento anni fa, quando le forze politiche, scientifiche e religiose imponevano uno standard culturale molto rigido, serioso, privato di ogni sen­so di umorismo e di ironia. Milan Kundera ha voluto intitolare un suo romanzo The laughter or angels, un titolo che era la sua cifra di ironia, scetticismo, di messa in dubbio della pressione totali­taria. Un elemento di libertà, di coscienza di sé stesso, attraverso il quale intendeva mostrare che il mondo non è costruito con regole uniformi. Dobbiamo poi considerare Umberto Eco, che ha una visione opposta: nel mondo tutto è fluido, liquido, tutto sta cambiando, niente è certo; solo nella finzione e nella lette­ratura è possibile secondo le regole della logica e dell’ordine, e la gente allora legge libri perché vuole una “storia d’autore”. Ci sono visioni opposte della funzione del romanzo, ma in comu­ne hanno l’idea che questo giochi un ruolo molto importante nella vita della gente, più specificamente in ambiente culturale. Penso che questa differenza di “uso” del romanzo sia dovuta al fatto che Kundera e Eco hanno differenti esperienze di vita. Kun­dera viene dall’Europa dell’est, e provava su di sé l’oppressione dell’uniformità, la potenza dell’insieme istituzionale. Umberto Eco ha vissuto in un mondo molto diverso, non così rigido, un mondo fluido, dove non si può sapere fino in fondo quello che è vero e quello che non lo è, quale è la realtà e quale l’invenzione, dove si ferma la fantasia e iniziano i fatti: un mondo dove tutto è indefinito. Se tu accendi la televisione e vedi il telegiornale o un momento di teatro non cogli la differenza, sono più o meno uguali. Evidentemente Eco vede la letteratura come qualcosa di potente, opposto alla pressione della realtà che ti rende confu­so, incerto, insicuro. La letteratura porta il medicinale, la capacità di raccontare, di mettere la logica nella corrente degli eventi”.

Cosa c’è, se c’è, in comune tra Kundera e Eco?

Che la nostra cultura ha bisogno della letteratura perché sen­za non può agire bene: la letteratura fornisce la seconda parte di un insieme più grande, di cui la prima parte non può farne a meno. Allora la domanda non è se il libro ha la funzione che gli attribuiscono Kundera o Eco (non importa chi dei due abbia ra­gione), ma se il libro gioca ancora un ruolo così importante nella cultura, se noi lo vogliamo leggere perché vogliamo usufruirne, ed è questa la domanda che è sempre stata ignorata e respinta a causa della discussione sulla tecnica del libro. La gente dà molta importanza all’invenzione tecnica del libro, l’invenzione del MIT, dell’inchiostro elettronico, della carta elettronica. La possibili­tà di un libro che cambi di contenuto, che può essere riscritto avendo l’impressione di avere davanti un libro tradizionale e che invece possiamo paragonare a un videotape, con diverse e successive registrazioni nella stessa cassetta. La gente è affa­scinata da questa discussione tecnologica, come se il futuro del libro dipendesse dalla tecnologia della produzione. Questo se­condo me è il modo sbagliato di discutere la questione, perché le condizioni che veramente decidono di colui che sceglie sono più vaste della tecnologia di stampa. Sono le condizioni nelle quali viviamo, condizioni che una volta spingevano le persone a pensare più avanti, al futuro, a trovare qualche consistenza, con­tinuità, una logica profonda nella vita. Era il tempo in cui Jean Paul Sartre scriveva del projet de la vie, un progetto che desideri avere per tutta la tua vita. Quando avevi diciotto anni volevi sa­pere cosa ti sarebbe successo a settanta, e per questa ragione avevi bisogno di aiuto, ricercavi fortemente, e la ricerca forniva risposte molto potenti: avevi il Bildungsroman nel XIX secolo, che prendeva le mosse da Goethe e presentava modelli di vita e problemi che lei avrà già incontrato; prendiamo a esempio Thomas Mann: I Buddenbrok consiste tutto nel mostrare che ci sono certi principi che dovrebbero essere osservati, e che cosa succede se violi questi principi; che tipo di responsabilità avresti dovuto prendere. Quello che mi domando veramente è se la ge­nerazione di oggi sta pensando della propria vita in questi stessi termini, poiché abbiamo tagliato tutto il processo della vita in brevi episodi separati e seriali, ci stiamo muovendo da un epi­sodio all’altro.

Una “serialità esistenziale” che fa il paio con le richieste di fles­sibilità del mercato …

Recentemente ho concesso un’intervista alla BBC. ln quel pro­gramma c’era un assistente di ricerca che lavorava per la BBC da 14 anni senza avere mai avuto un contratto. Poiché era molto bravo nella sua ricerca, molto intelligente e lavorava sodo, quan­do finiva un progetto veniva subito assunto per un altro, an­dando semplicemente da un’occasione di lavoro all’altra, senza sapere cosa sarebbe successo ad esempio dopo sei mesi; e la cosa più rilevante è che considerava quella vita come normale, pensava che quello fosse l’unico modo di vivere la vita: da un progetto all’altro. La sua unica soddisfazione era il senso di fare un buon lavoro e di convincere i futuri committenti di essere bravo, così da farsi assumere per un lavoro successivo. Quando hai questo tipo di vita non sei più interessato alla letteratura di Kundera o di Eco, ma ai film e ai libri che fanno vedere la vita come una collezione di eventi non collegati, grandi sensazioni. Quindi siamo costretti a vivere un presente senza lungimiranza, spremiamo ogni momento, e se pensiamo all’immortalità allora la vogliamo adesso e all’istante come il caffè solubile: “l’immortalità solubile” per uso immediato. Non vogliamo l’immortalità se ci occorrono quarant’anni di lavoro per attenerla; quello che vogliamo non è più la cosa vera, ma l’esperienza della cosa vera, le sensazioni, l’”Erlebnis” come dicono i tedeschi – vivere attra­verso un evento. Questo è il passaggio più importante, che met­te in dubbio, mina, l’atto stesso di scrivere romanzi.

In che modo allora è possibile generare una politica dell’ascol­to, specificamente dell’ascolto delle differenze?

Ci sono due modi per rivolgersi all’ascolto. Il primo è la curio­sità per le differenze, il secondo la tolleranza per le differenze. La gente è allergica, paurosa delle differenze – perché si sente insicura, incerta, non protetta, e se una persona con un colore di pelle diverso, una cultura, costumi, una religione diversi, entra nell’ambiente hanno paura, vogliono tanto un primo ministro che proibisca l’immigrazione e che mandi via gli stranieri. lo vivo la situazione già un po’ più tranquillamente: sono meno insicu­ro, meno incerto, meno pauroso di altra gente che vive una vita diversa dalla mia. Abbiamo allora due modi di reagire: nel primo (la curiosità), alla gente piace la cucina straniera, che è sparsa e conosciuta ovunque; per esempio la cucina thai, cinese, porto­ghese, indiana, e paga l’entrata per la differenza (culturale), paga il conto per il diritto di andar via. Ma il modo cambia quando una persona thai o del Bangladesh si sistema nella tua strada. In questo caso non puoi pagare per uscire dalla situazione. Questa è tolleranza per le differenze. Il prossimo passaggio, che è più importante, è il passaggio che va dalla tolleranza alla solidarie­tà. Tolleranza e solidarietà sono due cose diverse. La tolleranza potrebbe essere svalorizzante: tu sei diverso – io rispetto il tuo modo di vivere. Questo vuoi dire che non mi piace il tuo modo di vivere, ma te lo meriti, quindi tienitelo. Non mi metto in mezzo, fai quello che vuoi. E tutto questo dimostra la mia generosità: io ti permetto di essere diverso, però non significa che possiedi un valore o una virtù; io, invece, sono generoso, perché ti permet­to di essere diverso. Quindi la tolleranza potrebbe essere molto svalorizzante e generare ineguaglianze tra le persone. La soli­darietà è una cosa diversa, perché non significa soltanto che ac­cetto che la gente sia diversa, ma penso – e agisco in base al mio pensare – che tutti noi beneficiamo di questa diversità. Non è soltanto la varietà che è interessante, non mi piace la differenza soltanto perché voglio sfuggire la noia; mi piace perché penso che io posso imparare da te e tu puoi imparare da me. Possiamo tutti essere più ricchi grazie a questo. Non ti voglio convertire alle mie credenze, sono interessato alla tua religione perché for­se tu hai trovato qualcosa che io non avevo: ero cieco e ho visto per merito tuo. Quindi lo si può considerare un dialogo. Non vuoi dire che accetto tutto quello che mi circonda, che tutta la diversità è buona semplicemente perché è differente, ma vuoi dire che tento di unire le forze per elaborare un modo migliore di vivere per tutti noi. Questo implica un dialogo. La tolleranza è molto spesso monologica. Non so dire se prevarrà la tolleranza, la solidarietà o semplicemente il rigetto.

Sempre meno nelle grandi città si ha il tempo e soprattutto lo spazio per incontrarsi e per confrontarsi. Oltre al problema etico, possiamo considerarlo un problema di natura architet­tonica?

Gli spazi pubblici sono molto importanti. La creazione di spazi pubblici è un grande diritto architettonico, una grande arte che invita le persone a stare insieme a lungo, per chiacchierare, per scherzare. Mia figlia è architetto e ha vinto un premio naziona­le per aver convertito in spazio pubblico un vecchio impianto portuale chiamato “Brittington” che nell’ottocento godeva di una certa fama. Mia figlia quindi ha ricreato il centro di questo impianto in modo che la gente non soltanto lo visita, ma sente il piacere di rimanerci, di chiacchierare, di passeggiarci. Gli spazi comuni sono assenti nel nostro sviluppo urbano. C’è un archi­tetto americano di nome Flusty che ha notato come la maggio­ranza dello sviluppo architettonico crei spazi interdetti che non soltanto non attirano le persone, ma le scoraggiano e le respin­gono separandole, spazi che funzionano solo come luoghi di passaggio dove nessuno si ferma. In uno dei miei libri ho men­zionato la mia esperienza orrenda alla Défense di Parigi. È l’opera architettonica più prestigiosa costruita di recente a Parigi, e ha goduto di tante sovvenzioni da parte di Mitterand, che ne anda­va fiero. È una piazza enorme, completamente vuota, circondata da bellissimi palazzi enormi, costruiti con materiali pregiati, dal­le forme inusuali. Ma non vedi finestre, sembrano tutti blocchi di pietra, non vedi se c’è qualcuno dentro, dato che il materiale riflette la luce. Non si trova neanche una panchina in tutta la piazza dove ci si possa sedere e chiacchierare. Soltanto in fondo, in un angolo della piazza sopra un podio, c’è qualche panchina. Di conseguenza la gente che vi si siede diventa lo spettacolo. Questo sviluppo pubblico, che è “anti-pubblico”, non ci fa più immaginare l’agorà dei greci o il forum romano. Gli spazi pubbli­ci che abbiamo adesso o sono angoscianti, o dobbiamo pagare per avervi accesso, come i ristoranti e le discoteche.

Come possiamo interpretare oggi la città contemporanea?

C’è un sociologo urbanista molto interessante in Danimarca, Hedwig Becth, che ha sviluppato il concetto di “telecity”. Ha mai sentito parlare del “flaneur”? Era una volta l’uomo che aveva il tempo di passeggiare per le strade soltanto per un

suo piacere, per osservare i comportamenti delle persone senza parteciparvi; era un buono spettatore e il fatto che osservasse era un buon passatempo. Walter Benjamin, il filosofo tedesco, ne ha scritto approfonditamente. Oggi il flaneur non ha più bi­sogno delle sue gambe perché siamo tutti dei “flaneurs” quando guardiamo la televisione seduti sulle nostre poltrone. La città non può offrire tante attrazioni, varietà, diversità, quante ne offre la televisione. Abbiamo cinquanta canali, o forse duecen­to, e saltiamo da un canale all’altro senza incontrare in fondo nessuno. Quindi il flaneur diventa una persona solitaria. Da un lato la “telecity” influenza il modo di vedere il mondo, dall’altro spoglia della sua funzione la città, quella vera, la rende super­flua. La città reale promuoveva legami tra le persone: bisognava incontrare gli stranieri faccia a faccia, e ogni volta che incontravi uno straniero anche lui ti incontrava faccia a faccia, l’incontro era reciproco e rappresentava, potenzialmente, l’inizio del dia­logo. Nella “telecity” invece l’incontro proviene solo da un lato: tu vedi lo straniero, ma lui non ti vede, lo schermo non ti vede, è soltanto un’immagine, e quindi non è l’inizio di un dialogo, è senza conseguenze.

La poesia può essere il luogo delle differenze?

Non posso rispondere a questa domanda, non sono un poeta; mi piace la poesia, ma non l’ho studiata. La poesia è l’atto di immaginare mondi possibili ed è sempre stato il suo vantaggio poiché noi paghiamo una mancanza di alternative se pensiamo che il nostro mondo sia l’unico mondo possibile: sinceramente abbiamo bisogno di più poeti.

Quale libro o quali autori consiglierebbe di leggere a dei gio­vani lettori?

Ci sono due autori da cui ho imparato molto: Jorge Luis Borges e Italo Calvino. Le città invisibili è il migliore libro di sociologia che abbia mai Ietto. E poi c’è un romanzo che riassume la storia dell’Ottocento, se si vuole capire la storia di quel secolo biso­gna leggerlo: L’uomo senza qualità di Robert MusiI. Un altro è un romanzo di George Perec, che invece dovete leggere se volete capire la storia del XX secolo: La vita istruzioni per l’uso .

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“Poesia e psicoanalisi: mappe per un dialogo” – intervista a Vittorio Lingiardi

Un estratto dall’intervista a Vittorio Lingiardi uscita sul n. 20 di Versodove.

I risultati delle neuroscienze che lei riferisce sono impressionanti: soprattutto il fatto che la visione del paesaggio attivi nel nostro cervello i neuroni specchio, gli stessi che riconoscono l’espressione di un volto o un comportamento umano.

Quello neuroscientifico è uno dei modi possibili di guardare il paesaggio. Pensare il paesaggio, infatti, implica la condivisione di un territorio promiscuo. Decine di discipline lo esplorano. Miliardi di occhi lo toccano, guardandolo senza essere visti. È materia per geologi e geografi, ecologisti e architetti, archeologi e storici dell’arte, antropologi e giuristi, filosofi e neuroscienziati. E naturalmente per viaggiatori, esploratori e turisti. Ai tanti sguardi ho provato ad aggiungere quello di uno psicoanalista curioso di dialogare con le altre discipline. Il mio libro Mindscapes non ha una specifica direzione o una gerarchia: si può partire da un capitolo qualunque, entrare e uscire. Si può leggere come un paesaggio, lasciando che lo sguardo si soffermi dove vuole, su un punto che ci riguarda più di altri. Lei è rimasto colpito da quello che gli studi sui neuroni specchio possono dire del nostro rapporto con il paesaggio. Quando prima mi domandava se a nostra psiche/cervello può riconoscersi nel paesaggio non umano proponeva una bellissima sintesi di ciò che potrebbero dirci questi studi. Ipotesi di grande fascino, ma ancora molto speculative. Infatti risponderò soprattutto con… domande! Inoltre dovrà perdonarmi perché, come avrà notato, non ho il dono della brevità… Dunque, se il nostro rapporto con il paesaggio prende vita nell’incontro tra percezione, cognizione, memoria e risonanze emotive, l’idea di mindscape non può che contenere quella di brainscape: disgiungerle impoverirebbe la visione. L’esperienza visiva del paesaggio ci sospinge dunque nei territori di una disciplina relativamente nuova, la neuroestetica. In che modo il nostro cervello “vede” gli oggetti e le loro forme? È possibile applicare alla visione del paesaggio ciò che abbiamo appreso dagli studi sui correlati neurali della visione di produzioni artistiche? Cosa ci insegnano le neuroscienze cognitive sul nostro modo di guardare un dipinto, una scultura, un film? Quali differenze neurali accendono la visione di un paesaggio fotografato, dipinto e guardato “dal vero”? Non solo: da cosa dipendono le nostre preferenze paesaggistiche e quanto sono condizionate da specifiche affordances (proprietà che “fanno presa” sul nostro sguardo) del paesaggio? Non abbiamo qui lo spazio per tentare di rispondere a queste domande. Valga per tutte l’affermazione dello scienziato Vittorio Gallese per cui osservare il mondo

è un’impresa ben più complessa della mera attivazione del “cervello visivo”. Sono in gioco molte parti del cervello: sensorimotorie, limbiche. Un elemento cruciale della risposta estetica è l’attivazione di meccanismi universali “incarnati” che comprendono la simulazione di azioni, emozioni e sensazioni corporee. Si tratta, per dirla ancora con Gallese, di un basic level di reagire alle immagini, essenziale per capire l’efficacia sia delle immagini della vita di tutti i giorni sia delle opere d’arte. Cosa deve raccontare un’immagine per attivare un’esperienza mirror? Sono indispensabili le tracce dell’umano o basta la “scena naturale”? E quanto dipende dalle nostre predisposizioni, intenzioni, organizzazioni cognitive? Nell’“ambiente non umano”, ci limitiamo a proiettare o possiamo rispecchiare? Ha ragione Rilke ad affermare che il nostro rapporto con il paesaggio implica una solitudine radicale, che “il paesaggio è lì, senza le mani, e non ha un volto”? I risultati di una ricerca (Di Dio, Ardizzi, Massaro … Gallese, 2016) sulle attivazioni corticali riguardanti dipinti con due diversi tipi di immagini (umane e naturali) in due situazioni diverse (statiche e dinamiche), possono fornirci qualche suggerimento. Innanzitutto, non sembra esserci differenza tra figure umane e scenari naturali nella capacità di produrre un’attivazione corticale. Entrambe le categorie di immagini attivano zone corticali deputate all’analisi percettiva e alla classificazione dello stimolo. Addentrandoci nei risultati dell’esperimento scopriamo che i dipinti raffiguranti esseri umani, in particolare quelli contenenti scene dinamiche, sembrano determinare una risonanza motoria maggiore (grazie alle azioni raffigurate). L’esposizione a scenari naturali sembra però attivare una componente sensorimotoria aggiuntiva che favorisce la simulazione motoria di un immaginario comportamento esplorativo. In altre parole, sembra che nel caso di scenari naturali, l’elaborazione estetica implichi una sorta di immersione nella scena rappresentata che avviene sulla base delle esperienze, dei bisogni e delle emozioni dell’osservatore. La visione di uno scenario alpino promuoverà in uno scalatore attivazioni specifiche, così come una piscina di Hockney in un nuotatore. In conclusione credo si possa affermare che i nostri neuroni sono piuttosto interessati al paesaggio.

In sostanza, si può dire che il nostro rapporto con il paesaggio sia ben più complesso, e intenso, della “contemplazione” dell’estetica classica?

Il nostro rapporto con il paesaggio non si esaurisce nello sguardo e nella contemplazione. Implica il corpo e la sua partecipazione sensoriale, si carica di affetti e memoria e diventa elemento dell’identità. Paesaggire, il magnifico neologismo coniato da Andrea Zanzotto serve a mettere a fuoco la presenza umana e le lacerazioni della storia, facendo del paesaggio un luogo reale in continuità con un luogo psichico. Un “deposito di tracce”, dice il poeta, quel “rasoterra in cui ho dovuto rifugiarmi più volte, per non restare ammazzato durante i rastrellamenti”. Stare nel paesaggio, continua, può comportare “eritemi” su una pelle “offesa” e “diffrazioni” che impediscono allo sguardo di “concentrarsi in un unico punto della storia, di avere una visione semplice e nitida”. La nostra relazione con il paesaggio deve abbandonare la dimensione panoramica per entrare nell’esperienza fisica. Come psicoanalista credo nella continuità tra psiche e corpo, spazio interno e spazio esterno, e li sento inseparabili. Rubo felicemente a Merleau-Ponty l’idea dell’ambiente come patria dei nostri pensieri e quella del bastone del non vedente come estensione del suo sguardo, l’estremo punto di contatto che si trasforma in zona sensibile.

Il paesaggio dell’inconscio, il paesaggio della poesia hanno delle affinità: dalla metafora archeologica di Freud alla topologia archetipica di Jung fino alla linea della lettera di Lacan. E, sull’altro versante, Dietro il paesaggio di Zanzotto, per tornare a lui, così come i molteplici attraversamenti della forma-città in tanti libri di poesia. Cosa rappresenta davvero la parola “paesaggio” rispetto all’ambizione di una mappatura definibile una volta per tutte?

Non esiste mappatura definibile una volta per tutte. E quello di paesaggio rimane un concetto indefinibile, ambiguo e sconfinato. Proprio Zanzotto dice che il paesaggio “non si stanca mai di lasciarsi definire” ed “è in fuga da ogni possibile definizione perché in sé le racchiude tutte”. Potremmo dire lo stesso per l’inconscio e per il sogno che, diceva Freud, “ha perlomeno un punto di insondabilità, quasi un ombelico attraverso il quale è congiunto all’ignoto”. Questo non significa che non possiamo giocare, come direbbe Benjamin, con l’idea di “articolare lo spazio della vita in una mappa”. L’analisi di un paziente è imparare a conoscere i suoi paesaggi: le grotte per proteggersi, i porti per rifornirsi prima di tornare a esplorare il mondo, le torri per guardare dall’alto e i cunicoli per scendere in basso, i mercati per scambiare gli oggetti, le biblioteche per archiviare le conoscenze, gli spazi virtuali per incontrare sconosciuti. Quando Benjamin descrive Parigi, sembra quasi parlare di una seduta d’analisi: dice “si scinde nei suoi poli dialettici”, “si apre come un paesaggio” e ci “racchiude come una stanza”.

 

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