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Con puntuale ritardo e incredibile coerenza: tra letteratura e architettura. una nota di Antonio Alberto Clemente – Sequenza 2

Con puntuale ritardo e incredibile coerenza.

Recensioni, note, appunti.
Brevi più o meno, in affanno, come sempre per «Versodove» in cui tutto si costruisce col rigore millimetrico di essere qui con “incredibile coerenza”, ma sempre “in ritardo”, dislocati innanzitutto rispetto a se stessi.
Ci proviamo a leggere, non solo in privato, ma rendendo conto in chiaro di quanto sopraggiunge nelle nostre mani di libri d’ogni fatta a cui vorremmo dare uno spazio seppur esile di risonanza. Un terzo tempo di incontro, di dialogo che resti segnato, detto trascritto. E nello stesso tempo un saluto, un congedo, un augurio.

La redazione


Tra letteratura e architettura

Sequenza_2 Paesaggi

Era il 1913 quando Georg Simmel disse: «per il paesaggio è assolutamente essenziale la delimitazione, l’essere compreso in un orizzonte momentaneo o durevole; la sua base materiale o le sue singole parti possono avere semplicemente il valore di natura ma, rappresentate come “paesaggio”, richiedono un essere-per-sé che può essere ottico, estetico, legato a uno stato d’animo, reclamano un rilievo individuale e caratteristico, rispetto a quell’unità indissolubile della natura». Lampi di pensiero di straordinaria attualità all’interno dei quali Il paesaggio è, contemporaneamente, un Diario dello sguardo, un Atlante delle emozioni, un’Estetica della natura. È la conferma che L’occhio di Calvino aveva ragione a identificare il tempo come il presupposto essenziale per qualsiasi Ipotesi di descrizione del paesaggio. Ed è, infine, lo scenario in cui è solo Staccando l’ombra da terra che si può calcolare la giusta distanza affinché La fotografia sia una presa di coscienza e non soltanto una mera registrazione della realtà.

Troppo spesso tutto questo viene dimenticato. E lo spazio tra Convenzione europea del paesaggio e governo del territorio rimane uno spazio esclusivamente giuridico. Senza aprirsi a una comprensione più profonda della Storia del paesaggio agrario italiano, ad approfondire La conoscenza del territorio, a inserire Paesaggi luoghi città in una prospettiva di più ampio respiro culturale. E progettuale.

Il disegno del paesaggio italiano è, infatti, la testimonianza di un’attesa che pare aver esaurito tutte le aspettative possibili. Luoghi e paesaggi sono spazi delle potenzialità inespresse che difficilmente riusciranno a trasformarsi in progetto di territorio. L’atto di vedere è in difficoltà nel convertire i Significati del confine in attraversamenti. E il Manifesto del terzo paesaggio fatica a diventare prassi operativa ordinaria: il suo invito a osservare la realtà, sia per quello che è rimasto sia per ciò che non è più, rimane più la constatazione di uno stato di decomposizione senza morte che non l’incipit per dare avvio a un’azione concreta di rigenerazione territoriale.

Probabilmente, Vivere di paesaggio è Il libro dell’inquietudine che ogni architetto porta dentro di sé, sapendo che Il sogno di disegnare il mondo è solo un’utopia. Forse l’ultima.

 

Compagni di viaggio:

Georg Simmel, Saggi sul paesaggio, Armando Editore, 2006.

Juhani Pallasmaa, Lampi di pensiero, Pendragon, Bologna 2011.

Maurizio Vitta, Il paesaggio, Einaudi, Torino 2005.

Michael Jakob, Il paesaggio, il Mulino, Bologna 2009.

Bernard Noel, Diario dello sguardo, Guerini e Associati, 1992 (1988).

Giuliana Bruno, Atlante delle emozioni, Bruno Mondadori, Milano 2006.

Paolo D’Angelo, Estetica della natura, Laterza, Bari-Roma 2001.

Marco Belpoliti, L’occhio di Calvino, Einaudi, Torino 1996.

Italo Calvino, Ipotesi di descrizione di un paesaggio, in Id., Saggi (1945-1985) Volume II, Mondadori, Milano 1995.

Daniele Del Giudice, Staccando l’ombra da terra, Einaudi, Torino 1994.

Ugo Mulas, La fotografia, Einaudi, Torino 2007.

Gian Franco Cartei (a cura di), Convenzione europea del paesaggio e governo del territorio, il Mulino, Bologna 2007.

Emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari 1986 (1961).

Eugenio Turri, La conoscenza del territorio, Marsilio, Venezia 2002.

Paolo Federico Colusso, Wim Wenders: paesaggi, luoghi, città, Testo & Immagine, Torino 1998.

Il disegno del paesaggio, Casabella 575/576 (Numero Monografico), Gennaio-Febbraio 1991.

Andrea Zanzotto, Luoghi e paesaggi, Bompiani, Milano 2013.

Wim Wenders, L’atto di vedere, Ubulibri, Roma 2002 (1994).

Piero Zanini, Significati del confine, Bruno Mondadori, Milano 1997.

Gilles Clément, Manifesto del Terzo paesaggio, Quaolibet, Macerata 2005.

Françoise Julien, Vivere di paesaggio, Mimesis, Milano-Udine 2017.

Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine, Feltrinelli, Milano 1982.

James Cowan, Il sogno di disegnare il mondo, Rizzoli, Milano 1998.

 

di Antonio Alberto Clemente

 

 

Immagine in evidenza tratta dalla copertina di Il paesaggio, Michael Jakob, il Mulino, Bologna 2009.


Con puntuale ritardo e incredibile coerenza – Tra letteratura e architettura: una nota di Antonio Alberto Clemente

Con puntuale ritardo e incredibile coerenza.

Recensioni, note, appunti.
Brevi più o meno, in affanno, come sempre per «Versodove» in cui tutto si costruisce col rigore millimetrico di essere qui con “incredibile coerenza”, ma sempre “in ritardo”, dislocati innanzitutto rispetto a se stessi.
Ci proviamo a leggere, non solo in privato, ma rendendo conto in chiaro di quanto sopraggiunge nelle nostre mani di libri d’ogni fatta a cui vorremmo dare uno spazio seppur esile di risonanza. Un terzo tempo di incontro, di dialogo che resti segnato, detto trascritto. E nello stesso tempo un saluto, un congedo, un augurio.

La redazione


Tra letteratura e architettura

Sequenza_1 Tendenze

«La città, oggetto di questo libro, viene qui intesa come una architettura. Parlando di architettura non intendo riferirmi solo all’immagine visibile della città e all’insieme delle sue architetture; ma piuttosto all’architettura come costruzione. Mi riferisco alla costruzione della città nel tempo». Era il 1966 quando Aldo Rossi fece questa affermazione. Ed era il tempo di una sostanziale convergenza su quale fosse Il territorio dell’architettura e Il significato della città. La sottile differenza tra gli Scritti scelti sull’architettura e la città e gli Scritti di architettura è, in realtà, una prova di dialogo purtroppo interrotta prematuramente. Saper vedere l’architettura non era più un dogma ma una delle possibilità dello sguardo. Si stabilivano altre prospettive in cui La costruzione logica dell’architettura si presentava come interpretazione dei Rapporti tra la morfologia urbana e la tipologia edilizia. Ed è su questa scia che si stabilisce una stretta connessione tra Teoria e progetto per poi arrivare a identificare quale potrebbe essere L’architettura della realtà. La Torre di Babele conteneva, non soltanto, molte Architetture in forma di parole ma anche l’invito ad abitare il mondo plurale delle lingue sulle quali si è costruita la città. C’era, inoltre, una continuità evidente tra Lo studio dei fenomeni urbani e I temi dell’architettura della città; tra L’abitazione razionale e Un’idea di piano, tra L’illusione e i cristalli come anche tra L’urbanistica e l’avvenire delle città.

Spazio, tempo e Architettura erano le coordinate per Progettare un edificio, identificare Gli elementi del fenomeno architettonico, costruire La città dell’uomo. È stato un periodo in cui non c’erano Parole nel vuoto, come dimostra il fatto che, ancora oggi, molte di esse sono parte integrante del vocabolario contemporaneo. La solitudine degli edifici era di là da venire e La piramide rovesciata un controcanto quasi solitario.

Nessuno poteva immaginare che tutto si sarebbe risolto in Silenzi eloquenti.

Compagni di viaggio:

Aldo Rossi, L’architettura della città, CLUP, Milano, 1978 (1966).

Vittorio Gregotti, Il territorio dell’architettura, Feltrinelli, Milano 1966.

Carlo Aymonino, Il significato della città, Laterza, Roma-Bari 1975.

Aldo Rossi, Scritti scelti sull’architettura e la città, CLUP, Milano 1985.

Ezio Bonfanti, Scritti di architettura, CLUP, Milano 1981.

Bruno Zevi, Saper vedere l’architettura, Einaudi, Torino 1956.

Giorgio Grassi, La costruzione logica dell’architettura, Marsilio, Venezia 1967.

AA.VV., Rapporti tra la morfologia urbana e la tipologia edilizia. Documenti del corso di caratteri distributivi degli edifici. Anno academico 1965-1966, Cluva, Venezia 1966.

Antonio Monestiroli, Teoria e progetto. Considerazioni sull’architettura di Giorgio Grassi, in Controspazio n. 2, ottobre 1974.

Antonio Monestiroli, L’architettura della realtà, CLUP, Milano 1979.

Ludovico Quaroni, La Torre di Babele, Marsilio, Venezia 1967.

Costantino Dardi, Architetture in forma di parole, Quodlibet, Macerata 2009.

Carlo Aymonino, Lo studio dei fenomeni urbani, Officina Edizioni, Roma 1977.

AA.VV., I temi dell’architettura della città, CLUP, Milano 1976.

Carlo Aymonino (a cura di), L’abitazione razionale. Atti dei congressi C.I.A.M. 1929-1930, Marsilio, Venezia 1971.

Ludwig Hilberseimer, Un’idea di piano, Marsilio, Venezia 1967 (1963).

Agostino Renna, L’illusione e i cristalli, CLEAR, Roma 1980.

Giuseppe Samonà, L’urbanistica e l’avvenire delle città, Laterza, Roma-Bari 1975.

Sigfried Giedion, Spazio, tempo e Architettura, Hoepli, Milano 1984 (1954).

Ludovico Quaroni, Progettare un edificio. Otto lezioni di architettura, Mazzotta, Milano 1977.

Ernesto Nathan Rogers, Gli elementi del fenomeno architettonico, Guida, Napoli 1981 (1963).

Adriano Olivetti, La città dell’uomo, Edizioni di Comunità, Milano 2001 (1960).

Adolf Loos, Parole nel vuoto, Adelphi, Milano 1972 (1921).

Rafael Moneo, La solitudine degli edifici e altri scritti. Questioni intorno all’architettura, Allemandi & C., Torino – London, 1999.

Giancarlo De Carlo, La piramide rovesciata, Quodlibet, Macerata 2018 (1968).

Carlos Martí Arís, Silenzi eloquenti, Marinotti, Milano 2002 (1999).

 

di Antonio Alberto Clemente


La metropoli senza qualità: intervista a Zygmunt Bauman

Intervista di Alessandro Di Prima a Zygmunt Bauman tratta dal n.13 di Versodove.

Zygmunt Bauman (Poznań 1925 – Leeds 2017) ha insegnato Sociologia all’Università di Leeds. Ha pubblicato numerosi importanti saggi, fra i quali La decadenza degli intellettuali (Bollati Boringhieri 1992), Modernità e olocausto (Il Mulino 1992), La società dell’incertezza (Il Mulino 1999), Le sfide dell’etica (Feltrinelli 1996).

La letteratura, nel mondo globalizzato, può essere ancora uno spazio sociale, un momento di azione collettiva come intende la politica Claus Offe?

Ci sono due visioni per quanto riguarda il ruolo della letteratura nella cultura europea. Innanzitutto quella di Milan Kundera, che è stata influenzata da tutte le istituzioni della modernità classi­ca: non la modernità com’è oggi ma com’era duecento anni fa, quando le forze politiche, scientifiche e religiose imponevano uno standard culturale molto rigido, serioso, privato di ogni sen­so di umorismo e di ironia. Milan Kundera ha voluto intitolare un suo romanzo The laughter or angels, un titolo che era la sua cifra di ironia, scetticismo, di messa in dubbio della pressione totali­taria. Un elemento di libertà, di coscienza di sé stesso, attraverso il quale intendeva mostrare che il mondo non è costruito con regole uniformi. Dobbiamo poi considerare Umberto Eco, che ha una visione opposta: nel mondo tutto è fluido, liquido, tutto sta cambiando, niente è certo; solo nella finzione e nella lette­ratura è possibile secondo le regole della logica e dell’ordine, e la gente allora legge libri perché vuole una “storia d’autore”. Ci sono visioni opposte della funzione del romanzo, ma in comu­ne hanno l’idea che questo giochi un ruolo molto importante nella vita della gente, più specificamente in ambiente culturale. Penso che questa differenza di “uso” del romanzo sia dovuta al fatto che Kundera e Eco hanno differenti esperienze di vita. Kun­dera viene dall’Europa dell’est, e provava su di sé l’oppressione dell’uniformità, la potenza dell’insieme istituzionale. Umberto Eco ha vissuto in un mondo molto diverso, non così rigido, un mondo fluido, dove non si può sapere fino in fondo quello che è vero e quello che non lo è, quale è la realtà e quale l’invenzione, dove si ferma la fantasia e iniziano i fatti: un mondo dove tutto è indefinito. Se tu accendi la televisione e vedi il telegiornale o un momento di teatro non cogli la differenza, sono più o meno uguali. Evidentemente Eco vede la letteratura come qualcosa di potente, opposto alla pressione della realtà che ti rende confu­so, incerto, insicuro. La letteratura porta il medicinale, la capacità di raccontare, di mettere la logica nella corrente degli eventi”.

Cosa c’è, se c’è, in comune tra Kundera e Eco?

Che la nostra cultura ha bisogno della letteratura perché sen­za non può agire bene: la letteratura fornisce la seconda parte di un insieme più grande, di cui la prima parte non può farne a meno. Allora la domanda non è se il libro ha la funzione che gli attribuiscono Kundera o Eco (non importa chi dei due abbia ra­gione), ma se il libro gioca ancora un ruolo così importante nella cultura, se noi lo vogliamo leggere perché vogliamo usufruirne, ed è questa la domanda che è sempre stata ignorata e respinta a causa della discussione sulla tecnica del libro. La gente dà molta importanza all’invenzione tecnica del libro, l’invenzione del MIT, dell’inchiostro elettronico, della carta elettronica. La possibili­tà di un libro che cambi di contenuto, che può essere riscritto avendo l’impressione di avere davanti un libro tradizionale e che invece possiamo paragonare a un videotape, con diverse e successive registrazioni nella stessa cassetta. La gente è affa­scinata da questa discussione tecnologica, come se il futuro del libro dipendesse dalla tecnologia della produzione. Questo se­condo me è il modo sbagliato di discutere la questione, perché le condizioni che veramente decidono di colui che sceglie sono più vaste della tecnologia di stampa. Sono le condizioni nelle quali viviamo, condizioni che una volta spingevano le persone a pensare più avanti, al futuro, a trovare qualche consistenza, con­tinuità, una logica profonda nella vita. Era il tempo in cui Jean Paul Sartre scriveva del projet de la vie, un progetto che desideri avere per tutta la tua vita. Quando avevi diciotto anni volevi sa­pere cosa ti sarebbe successo a settanta, e per questa ragione avevi bisogno di aiuto, ricercavi fortemente, e la ricerca forniva risposte molto potenti: avevi il Bildungsroman nel XIX secolo, che prendeva le mosse da Goethe e presentava modelli di vita e problemi che lei avrà già incontrato; prendiamo a esempio Thomas Mann: I Buddenbrok consiste tutto nel mostrare che ci sono certi principi che dovrebbero essere osservati, e che cosa succede se violi questi principi; che tipo di responsabilità avresti dovuto prendere. Quello che mi domando veramente è se la ge­nerazione di oggi sta pensando della propria vita in questi stessi termini, poiché abbiamo tagliato tutto il processo della vita in brevi episodi separati e seriali, ci stiamo muovendo da un epi­sodio all’altro.

Una “serialità esistenziale” che fa il paio con le richieste di fles­sibilità del mercato …

Recentemente ho concesso un’intervista alla BBC. ln quel pro­gramma c’era un assistente di ricerca che lavorava per la BBC da 14 anni senza avere mai avuto un contratto. Poiché era molto bravo nella sua ricerca, molto intelligente e lavorava sodo, quan­do finiva un progetto veniva subito assunto per un altro, an­dando semplicemente da un’occasione di lavoro all’altra, senza sapere cosa sarebbe successo ad esempio dopo sei mesi; e la cosa più rilevante è che considerava quella vita come normale, pensava che quello fosse l’unico modo di vivere la vita: da un progetto all’altro. La sua unica soddisfazione era il senso di fare un buon lavoro e di convincere i futuri committenti di essere bravo, così da farsi assumere per un lavoro successivo. Quando hai questo tipo di vita non sei più interessato alla letteratura di Kundera o di Eco, ma ai film e ai libri che fanno vedere la vita come una collezione di eventi non collegati, grandi sensazioni. Quindi siamo costretti a vivere un presente senza lungimiranza, spremiamo ogni momento, e se pensiamo all’immortalità allora la vogliamo adesso e all’istante come il caffè solubile: “l’immortalità solubile” per uso immediato. Non vogliamo l’immortalità se ci occorrono quarant’anni di lavoro per attenerla; quello che vogliamo non è più la cosa vera, ma l’esperienza della cosa vera, le sensazioni, l’”Erlebnis” come dicono i tedeschi – vivere attra­verso un evento. Questo è il passaggio più importante, che met­te in dubbio, mina, l’atto stesso di scrivere romanzi.

In che modo allora è possibile generare una politica dell’ascol­to, specificamente dell’ascolto delle differenze?

Ci sono due modi per rivolgersi all’ascolto. Il primo è la curio­sità per le differenze, il secondo la tolleranza per le differenze. La gente è allergica, paurosa delle differenze – perché si sente insicura, incerta, non protetta, e se una persona con un colore di pelle diverso, una cultura, costumi, una religione diversi, entra nell’ambiente hanno paura, vogliono tanto un primo ministro che proibisca l’immigrazione e che mandi via gli stranieri. lo vivo la situazione già un po’ più tranquillamente: sono meno insicu­ro, meno incerto, meno pauroso di altra gente che vive una vita diversa dalla mia. Abbiamo allora due modi di reagire: nel primo (la curiosità), alla gente piace la cucina straniera, che è sparsa e conosciuta ovunque; per esempio la cucina thai, cinese, porto­ghese, indiana, e paga l’entrata per la differenza (culturale), paga il conto per il diritto di andar via. Ma il modo cambia quando una persona thai o del Bangladesh si sistema nella tua strada. In questo caso non puoi pagare per uscire dalla situazione. Questa è tolleranza per le differenze. Il prossimo passaggio, che è più importante, è il passaggio che va dalla tolleranza alla solidarie­tà. Tolleranza e solidarietà sono due cose diverse. La tolleranza potrebbe essere svalorizzante: tu sei diverso – io rispetto il tuo modo di vivere. Questo vuoi dire che non mi piace il tuo modo di vivere, ma te lo meriti, quindi tienitelo. Non mi metto in mezzo, fai quello che vuoi. E tutto questo dimostra la mia generosità: io ti permetto di essere diverso, però non significa che possiedi un valore o una virtù; io, invece, sono generoso, perché ti permet­to di essere diverso. Quindi la tolleranza potrebbe essere molto svalorizzante e generare ineguaglianze tra le persone. La soli­darietà è una cosa diversa, perché non significa soltanto che ac­cetto che la gente sia diversa, ma penso – e agisco in base al mio pensare – che tutti noi beneficiamo di questa diversità. Non è soltanto la varietà che è interessante, non mi piace la differenza soltanto perché voglio sfuggire la noia; mi piace perché penso che io posso imparare da te e tu puoi imparare da me. Possiamo tutti essere più ricchi grazie a questo. Non ti voglio convertire alle mie credenze, sono interessato alla tua religione perché for­se tu hai trovato qualcosa che io non avevo: ero cieco e ho visto per merito tuo. Quindi lo si può considerare un dialogo. Non vuoi dire che accetto tutto quello che mi circonda, che tutta la diversità è buona semplicemente perché è differente, ma vuoi dire che tento di unire le forze per elaborare un modo migliore di vivere per tutti noi. Questo implica un dialogo. La tolleranza è molto spesso monologica. Non so dire se prevarrà la tolleranza, la solidarietà o semplicemente il rigetto.

Sempre meno nelle grandi città si ha il tempo e soprattutto lo spazio per incontrarsi e per confrontarsi. Oltre al problema etico, possiamo considerarlo un problema di natura architet­tonica?

Gli spazi pubblici sono molto importanti. La creazione di spazi pubblici è un grande diritto architettonico, una grande arte che invita le persone a stare insieme a lungo, per chiacchierare, per scherzare. Mia figlia è architetto e ha vinto un premio naziona­le per aver convertito in spazio pubblico un vecchio impianto portuale chiamato “Brittington” che nell’ottocento godeva di una certa fama. Mia figlia quindi ha ricreato il centro di questo impianto in modo che la gente non soltanto lo visita, ma sente il piacere di rimanerci, di chiacchierare, di passeggiarci. Gli spazi comuni sono assenti nel nostro sviluppo urbano. C’è un archi­tetto americano di nome Flusty che ha notato come la maggio­ranza dello sviluppo architettonico crei spazi interdetti che non soltanto non attirano le persone, ma le scoraggiano e le respin­gono separandole, spazi che funzionano solo come luoghi di passaggio dove nessuno si ferma. In uno dei miei libri ho men­zionato la mia esperienza orrenda alla Défense di Parigi. È l’opera architettonica più prestigiosa costruita di recente a Parigi, e ha goduto di tante sovvenzioni da parte di Mitterand, che ne anda­va fiero. È una piazza enorme, completamente vuota, circondata da bellissimi palazzi enormi, costruiti con materiali pregiati, dal­le forme inusuali. Ma non vedi finestre, sembrano tutti blocchi di pietra, non vedi se c’è qualcuno dentro, dato che il materiale riflette la luce. Non si trova neanche una panchina in tutta la piazza dove ci si possa sedere e chiacchierare. Soltanto in fondo, in un angolo della piazza sopra un podio, c’è qualche panchina. Di conseguenza la gente che vi si siede diventa lo spettacolo. Questo sviluppo pubblico, che è “anti-pubblico”, non ci fa più immaginare l’agorà dei greci o il forum romano. Gli spazi pubbli­ci che abbiamo adesso o sono angoscianti, o dobbiamo pagare per avervi accesso, come i ristoranti e le discoteche.

Come possiamo interpretare oggi la città contemporanea?

C’è un sociologo urbanista molto interessante in Danimarca, Hedwig Becth, che ha sviluppato il concetto di “telecity”. Ha mai sentito parlare del “flaneur”? Era una volta l’uomo che aveva il tempo di passeggiare per le strade soltanto per un

suo piacere, per osservare i comportamenti delle persone senza parteciparvi; era un buono spettatore e il fatto che osservasse era un buon passatempo. Walter Benjamin, il filosofo tedesco, ne ha scritto approfonditamente. Oggi il flaneur non ha più bi­sogno delle sue gambe perché siamo tutti dei “flaneurs” quando guardiamo la televisione seduti sulle nostre poltrone. La città non può offrire tante attrazioni, varietà, diversità, quante ne offre la televisione. Abbiamo cinquanta canali, o forse duecen­to, e saltiamo da un canale all’altro senza incontrare in fondo nessuno. Quindi il flaneur diventa una persona solitaria. Da un lato la “telecity” influenza il modo di vedere il mondo, dall’altro spoglia della sua funzione la città, quella vera, la rende super­flua. La città reale promuoveva legami tra le persone: bisognava incontrare gli stranieri faccia a faccia, e ogni volta che incontravi uno straniero anche lui ti incontrava faccia a faccia, l’incontro era reciproco e rappresentava, potenzialmente, l’inizio del dia­logo. Nella “telecity” invece l’incontro proviene solo da un lato: tu vedi lo straniero, ma lui non ti vede, lo schermo non ti vede, è soltanto un’immagine, e quindi non è l’inizio di un dialogo, è senza conseguenze.

La poesia può essere il luogo delle differenze?

Non posso rispondere a questa domanda, non sono un poeta; mi piace la poesia, ma non l’ho studiata. La poesia è l’atto di immaginare mondi possibili ed è sempre stato il suo vantaggio poiché noi paghiamo una mancanza di alternative se pensiamo che il nostro mondo sia l’unico mondo possibile: sinceramente abbiamo bisogno di più poeti.

Quale libro o quali autori consiglierebbe di leggere a dei gio­vani lettori?

Ci sono due autori da cui ho imparato molto: Jorge Luis Borges e Italo Calvino. Le città invisibili è il migliore libro di sociologia che abbia mai Ietto. E poi c’è un romanzo che riassume la storia dell’Ottocento, se si vuole capire la storia di quel secolo biso­gna leggerlo: L’uomo senza qualità di Robert MusiI. Un altro è un romanzo di George Perec, che invece dovete leggere se volete capire la storia del XX secolo: La vita istruzioni per l’uso .

Photo by Andrew Gook on Unsplash