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Con puntuale ritardo e incredibile coerenza – nota su “Nyctalopia” di Rita Florit

Con puntuale ritardo e incredibile coerenza.

Recensioni, note, appunti.
Brevi più o meno, in affanno, come sempre per «Versodove» in cui tutto si costruisce col rigore millimetrico di essere qui con “incredibile coerenza”, ma sempre “in ritardo”, dislocati innanzitutto rispetto a se stessi.
Ci proviamo a leggere, non solo in privato, ma rendendo conto in chiaro di quanto sopraggiunge nelle nostre mani di libri d’ogni fatta a cui vorremmo dare uno spazio seppur esile di risonanza. Un terzo tempo di incontro, di dialogo che resti segnato, detto trascritto. E nello stesso tempo un saluto, un congedo, un augurio.

La redazione


Come vede o cosa un nictalope nella notte oscura dell’anima o nelle chiare tenebre della parola?

Rita Florit esplora questa duplice condizione della Nyctalopia riportandoci alla dimensione di una lingua che si inoltra in una veglia insonne, o meglio tenta una veggenza e ne pronunzia i lembi più segreti ed estremi.

Non è precisamente una discesa simbolica nel profondo ciò a cui assistiamo in questo libro, semmai un’esplorazione metonimica dello spazio e del tempo e delle figurazioni sonore che si succedono in un vedere cieco, nello sbandamento percettivo di una lingua che di testo in testo (una prosa poetica secca, nervosa, a spasmi di respiro) trasmigra di forma in forma, come se ci trovassimo nel Bardo Thodol o nello splendido quanto inarrestabile fluire di Enter the void di Gaspar Noè.

Ogni frammento slitta nel successivo, come stazioni di un viaggio frantumato, di una dissipazione senza requie che si arresta alla fine solo nel χάος di una bocca spalancata: «aspira il tuo rigurgito / notte mancanza. Apri le fauci… divoraci».

Luce totale o notte abissale, il nictalope sembra non voler rinunciare a questo suo statuto anfibio. Avanza e si ritrae, mettendo a fuoco ciò che vede, transvede, e mettendosi nel fuoco della propria cecità, nel buio luminescente “fosfofluorico” di una musica che ancor più oscuramente sembra sopraggiungere in un «grande firmamento ustorio» di mani, fiori, voci, stelle:

 

E altre musiche oscure del rogo sonoro del corpo armato,

più della fosfofluorica inermità di genere, dell’inclusione della

lingua madre, del brillìo del daimon, più dell’animale attiguo che

rivesti, della bestia silenziosa che covi, più del bosco di braci che

vai a essere.

 

C’è una cova e una lingua madre, c’è come un dire che nasce e si oscura, che principia il vedere ma non trova pace nelle parole,

 

c’era una notte un lupo-giocattolo una città in rovina una luna

calante una foto tagliata una neve nel cuore monco che urla “le

stelle ridono delle fiabe” sui nostri crani di non-morti.

 

Il nictalope procede per esattezza e spaesamento, avanza fin dove il rasoio della lingua lo conduce, sfiorando il margine forsennato della glossolalia, l’arresto siderale di uno sguardo fiabesco e cruento, il murmure di respiri e voci che appaiono e scompaiono dove luce e tenebre per un attimo danzano insieme.

 

Vito M. Bonito

 

Rita Florit, Nyctalopia, Roma, La camera verde, 2018, pp. 43, 15 euro.

 

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Immagine in evidenza tratta da: https://www.poesiadelnostrotempo.it/