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Con puntuale ritardo e incredibile coerenza: tra letteratura e architettura. una nota di Antonio Alberto Clemente – Sequenza 2

Con puntuale ritardo e incredibile coerenza.

Recensioni, note, appunti.
Brevi più o meno, in affanno, come sempre per «Versodove» in cui tutto si costruisce col rigore millimetrico di essere qui con “incredibile coerenza”, ma sempre “in ritardo”, dislocati innanzitutto rispetto a se stessi.
Ci proviamo a leggere, non solo in privato, ma rendendo conto in chiaro di quanto sopraggiunge nelle nostre mani di libri d’ogni fatta a cui vorremmo dare uno spazio seppur esile di risonanza. Un terzo tempo di incontro, di dialogo che resti segnato, detto trascritto. E nello stesso tempo un saluto, un congedo, un augurio.

La redazione


Tra letteratura e architettura

Sequenza_2 Paesaggi

Era il 1913 quando Georg Simmel disse: «per il paesaggio è assolutamente essenziale la delimitazione, l’essere compreso in un orizzonte momentaneo o durevole; la sua base materiale o le sue singole parti possono avere semplicemente il valore di natura ma, rappresentate come “paesaggio”, richiedono un essere-per-sé che può essere ottico, estetico, legato a uno stato d’animo, reclamano un rilievo individuale e caratteristico, rispetto a quell’unità indissolubile della natura». Lampi di pensiero di straordinaria attualità all’interno dei quali Il paesaggio è, contemporaneamente, un Diario dello sguardo, un Atlante delle emozioni, un’Estetica della natura. È la conferma che L’occhio di Calvino aveva ragione a identificare il tempo come il presupposto essenziale per qualsiasi Ipotesi di descrizione del paesaggio. Ed è, infine, lo scenario in cui è solo Staccando l’ombra da terra che si può calcolare la giusta distanza affinché La fotografia sia una presa di coscienza e non soltanto una mera registrazione della realtà.

Troppo spesso tutto questo viene dimenticato. E lo spazio tra Convenzione europea del paesaggio e governo del territorio rimane uno spazio esclusivamente giuridico. Senza aprirsi a una comprensione più profonda della Storia del paesaggio agrario italiano, ad approfondire La conoscenza del territorio, a inserire Paesaggi luoghi città in una prospettiva di più ampio respiro culturale. E progettuale.

Il disegno del paesaggio italiano è, infatti, la testimonianza di un’attesa che pare aver esaurito tutte le aspettative possibili. Luoghi e paesaggi sono spazi delle potenzialità inespresse che difficilmente riusciranno a trasformarsi in progetto di territorio. L’atto di vedere è in difficoltà nel convertire i Significati del confine in attraversamenti. E il Manifesto del terzo paesaggio fatica a diventare prassi operativa ordinaria: il suo invito a osservare la realtà, sia per quello che è rimasto sia per ciò che non è più, rimane più la constatazione di uno stato di decomposizione senza morte che non l’incipit per dare avvio a un’azione concreta di rigenerazione territoriale.

Probabilmente, Vivere di paesaggio è Il libro dell’inquietudine che ogni architetto porta dentro di sé, sapendo che Il sogno di disegnare il mondo è solo un’utopia. Forse l’ultima.

 

Compagni di viaggio:

Georg Simmel, Saggi sul paesaggio, Armando Editore, 2006.

Juhani Pallasmaa, Lampi di pensiero, Pendragon, Bologna 2011.

Maurizio Vitta, Il paesaggio, Einaudi, Torino 2005.

Michael Jakob, Il paesaggio, il Mulino, Bologna 2009.

Bernard Noel, Diario dello sguardo, Guerini e Associati, 1992 (1988).

Giuliana Bruno, Atlante delle emozioni, Bruno Mondadori, Milano 2006.

Paolo D’Angelo, Estetica della natura, Laterza, Bari-Roma 2001.

Marco Belpoliti, L’occhio di Calvino, Einaudi, Torino 1996.

Italo Calvino, Ipotesi di descrizione di un paesaggio, in Id., Saggi (1945-1985) Volume II, Mondadori, Milano 1995.

Daniele Del Giudice, Staccando l’ombra da terra, Einaudi, Torino 1994.

Ugo Mulas, La fotografia, Einaudi, Torino 2007.

Gian Franco Cartei (a cura di), Convenzione europea del paesaggio e governo del territorio, il Mulino, Bologna 2007.

Emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari 1986 (1961).

Eugenio Turri, La conoscenza del territorio, Marsilio, Venezia 2002.

Paolo Federico Colusso, Wim Wenders: paesaggi, luoghi, città, Testo & Immagine, Torino 1998.

Il disegno del paesaggio, Casabella 575/576 (Numero Monografico), Gennaio-Febbraio 1991.

Andrea Zanzotto, Luoghi e paesaggi, Bompiani, Milano 2013.

Wim Wenders, L’atto di vedere, Ubulibri, Roma 2002 (1994).

Piero Zanini, Significati del confine, Bruno Mondadori, Milano 1997.

Gilles Clément, Manifesto del Terzo paesaggio, Quaolibet, Macerata 2005.

Françoise Julien, Vivere di paesaggio, Mimesis, Milano-Udine 2017.

Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine, Feltrinelli, Milano 1982.

James Cowan, Il sogno di disegnare il mondo, Rizzoli, Milano 1998.

 

di Antonio Alberto Clemente

 

 

Immagine in evidenza tratta dalla copertina di Il paesaggio, Michael Jakob, il Mulino, Bologna 2009.


“Poesia e psicoanalisi: mappe per un dialogo” – intervista a Vittorio Lingiardi

Un estratto dall’intervista a Vittorio Lingiardi uscita sul n. 20 di Versodove.

I risultati delle neuroscienze che lei riferisce sono impressionanti: soprattutto il fatto che la visione del paesaggio attivi nel nostro cervello i neuroni specchio, gli stessi che riconoscono l’espressione di un volto o un comportamento umano.

Quello neuroscientifico è uno dei modi possibili di guardare il paesaggio. Pensare il paesaggio, infatti, implica la condivisione di un territorio promiscuo. Decine di discipline lo esplorano. Miliardi di occhi lo toccano, guardandolo senza essere visti. È materia per geologi e geografi, ecologisti e architetti, archeologi e storici dell’arte, antropologi e giuristi, filosofi e neuroscienziati. E naturalmente per viaggiatori, esploratori e turisti. Ai tanti sguardi ho provato ad aggiungere quello di uno psicoanalista curioso di dialogare con le altre discipline. Il mio libro Mindscapes non ha una specifica direzione o una gerarchia: si può partire da un capitolo qualunque, entrare e uscire. Si può leggere come un paesaggio, lasciando che lo sguardo si soffermi dove vuole, su un punto che ci riguarda più di altri. Lei è rimasto colpito da quello che gli studi sui neuroni specchio possono dire del nostro rapporto con il paesaggio. Quando prima mi domandava se a nostra psiche/cervello può riconoscersi nel paesaggio non umano proponeva una bellissima sintesi di ciò che potrebbero dirci questi studi. Ipotesi di grande fascino, ma ancora molto speculative. Infatti risponderò soprattutto con… domande! Inoltre dovrà perdonarmi perché, come avrà notato, non ho il dono della brevità… Dunque, se il nostro rapporto con il paesaggio prende vita nell’incontro tra percezione, cognizione, memoria e risonanze emotive, l’idea di mindscape non può che contenere quella di brainscape: disgiungerle impoverirebbe la visione. L’esperienza visiva del paesaggio ci sospinge dunque nei territori di una disciplina relativamente nuova, la neuroestetica. In che modo il nostro cervello “vede” gli oggetti e le loro forme? È possibile applicare alla visione del paesaggio ciò che abbiamo appreso dagli studi sui correlati neurali della visione di produzioni artistiche? Cosa ci insegnano le neuroscienze cognitive sul nostro modo di guardare un dipinto, una scultura, un film? Quali differenze neurali accendono la visione di un paesaggio fotografato, dipinto e guardato “dal vero”? Non solo: da cosa dipendono le nostre preferenze paesaggistiche e quanto sono condizionate da specifiche affordances (proprietà che “fanno presa” sul nostro sguardo) del paesaggio? Non abbiamo qui lo spazio per tentare di rispondere a queste domande. Valga per tutte l’affermazione dello scienziato Vittorio Gallese per cui osservare il mondo

è un’impresa ben più complessa della mera attivazione del “cervello visivo”. Sono in gioco molte parti del cervello: sensorimotorie, limbiche. Un elemento cruciale della risposta estetica è l’attivazione di meccanismi universali “incarnati” che comprendono la simulazione di azioni, emozioni e sensazioni corporee. Si tratta, per dirla ancora con Gallese, di un basic level di reagire alle immagini, essenziale per capire l’efficacia sia delle immagini della vita di tutti i giorni sia delle opere d’arte. Cosa deve raccontare un’immagine per attivare un’esperienza mirror? Sono indispensabili le tracce dell’umano o basta la “scena naturale”? E quanto dipende dalle nostre predisposizioni, intenzioni, organizzazioni cognitive? Nell’“ambiente non umano”, ci limitiamo a proiettare o possiamo rispecchiare? Ha ragione Rilke ad affermare che il nostro rapporto con il paesaggio implica una solitudine radicale, che “il paesaggio è lì, senza le mani, e non ha un volto”? I risultati di una ricerca (Di Dio, Ardizzi, Massaro … Gallese, 2016) sulle attivazioni corticali riguardanti dipinti con due diversi tipi di immagini (umane e naturali) in due situazioni diverse (statiche e dinamiche), possono fornirci qualche suggerimento. Innanzitutto, non sembra esserci differenza tra figure umane e scenari naturali nella capacità di produrre un’attivazione corticale. Entrambe le categorie di immagini attivano zone corticali deputate all’analisi percettiva e alla classificazione dello stimolo. Addentrandoci nei risultati dell’esperimento scopriamo che i dipinti raffiguranti esseri umani, in particolare quelli contenenti scene dinamiche, sembrano determinare una risonanza motoria maggiore (grazie alle azioni raffigurate). L’esposizione a scenari naturali sembra però attivare una componente sensorimotoria aggiuntiva che favorisce la simulazione motoria di un immaginario comportamento esplorativo. In altre parole, sembra che nel caso di scenari naturali, l’elaborazione estetica implichi una sorta di immersione nella scena rappresentata che avviene sulla base delle esperienze, dei bisogni e delle emozioni dell’osservatore. La visione di uno scenario alpino promuoverà in uno scalatore attivazioni specifiche, così come una piscina di Hockney in un nuotatore. In conclusione credo si possa affermare che i nostri neuroni sono piuttosto interessati al paesaggio.

In sostanza, si può dire che il nostro rapporto con il paesaggio sia ben più complesso, e intenso, della “contemplazione” dell’estetica classica?

Il nostro rapporto con il paesaggio non si esaurisce nello sguardo e nella contemplazione. Implica il corpo e la sua partecipazione sensoriale, si carica di affetti e memoria e diventa elemento dell’identità. Paesaggire, il magnifico neologismo coniato da Andrea Zanzotto serve a mettere a fuoco la presenza umana e le lacerazioni della storia, facendo del paesaggio un luogo reale in continuità con un luogo psichico. Un “deposito di tracce”, dice il poeta, quel “rasoterra in cui ho dovuto rifugiarmi più volte, per non restare ammazzato durante i rastrellamenti”. Stare nel paesaggio, continua, può comportare “eritemi” su una pelle “offesa” e “diffrazioni” che impediscono allo sguardo di “concentrarsi in un unico punto della storia, di avere una visione semplice e nitida”. La nostra relazione con il paesaggio deve abbandonare la dimensione panoramica per entrare nell’esperienza fisica. Come psicoanalista credo nella continuità tra psiche e corpo, spazio interno e spazio esterno, e li sento inseparabili. Rubo felicemente a Merleau-Ponty l’idea dell’ambiente come patria dei nostri pensieri e quella del bastone del non vedente come estensione del suo sguardo, l’estremo punto di contatto che si trasforma in zona sensibile.

Il paesaggio dell’inconscio, il paesaggio della poesia hanno delle affinità: dalla metafora archeologica di Freud alla topologia archetipica di Jung fino alla linea della lettera di Lacan. E, sull’altro versante, Dietro il paesaggio di Zanzotto, per tornare a lui, così come i molteplici attraversamenti della forma-città in tanti libri di poesia. Cosa rappresenta davvero la parola “paesaggio” rispetto all’ambizione di una mappatura definibile una volta per tutte?

Non esiste mappatura definibile una volta per tutte. E quello di paesaggio rimane un concetto indefinibile, ambiguo e sconfinato. Proprio Zanzotto dice che il paesaggio “non si stanca mai di lasciarsi definire” ed “è in fuga da ogni possibile definizione perché in sé le racchiude tutte”. Potremmo dire lo stesso per l’inconscio e per il sogno che, diceva Freud, “ha perlomeno un punto di insondabilità, quasi un ombelico attraverso il quale è congiunto all’ignoto”. Questo non significa che non possiamo giocare, come direbbe Benjamin, con l’idea di “articolare lo spazio della vita in una mappa”. L’analisi di un paziente è imparare a conoscere i suoi paesaggi: le grotte per proteggersi, i porti per rifornirsi prima di tornare a esplorare il mondo, le torri per guardare dall’alto e i cunicoli per scendere in basso, i mercati per scambiare gli oggetti, le biblioteche per archiviare le conoscenze, gli spazi virtuali per incontrare sconosciuti. Quando Benjamin descrive Parigi, sembra quasi parlare di una seduta d’analisi: dice “si scinde nei suoi poli dialettici”, “si apre come un paesaggio” e ci “racchiude come una stanza”.

 

Photo by Kevin Hou on Unsplash


Edifici scarto. Figure del tempo – di Antonio A. Clemente

Nell’ebraico delle sacre scritture c’è una coincidenza: sherìt è resto, reshìt è principio, due parole lontane in italiano ma unite in quella lingua dal vincolo misterioso dell’anagramma e del valore numerico. Solo Isaia le accosta (46, 3 e 10). Forse si può sopportare di essere un resto, ingiustificato e abusivo al mondo, solo se si crede all’impossibile disegno che fa, del proprio essere residuo, la materia prima di un principio.

Erri De Luca, Alzaia, 2004

Gli scarti sono corpi costruiti colpevolmente innocenti di essere stati immaginati, progettati, realizzati. E abbandonati.

Gli scarti sono fabbricati, in uno stato di decomposizione senza morte, che abitano lo spazio intermedio tra tutte le potenzialità del passato rimaste inespresse e un futuro che potrebbe non arrivare mai.

Gli scarti sono edifici sospesi tra memoria e dimenticanza. La memoria della loro sopravvivenza passiva in un luogo specifico, in una posizione determinata, nell’ambito territoriale che li contiene. La dimenticanza di un corpo edilizio trascurato che mostra, negli intonaci scrostati e nelle parti mancanti, il decadimento generale dovuto al suo essere fuori-uso. Ed è proprio nello spazio tra queste due condizioni che il paesaggio degli scarti si apre al futuro o si avvia alla sofferenza supplementare di una progressiva decomposizione. L’edificio-scarto, per sua natura, pone sé stesso come tema di progetto solo quando si presta a essere trasformato, ad accettare un destino diverso da quello per cui fu costruito, ad abdicare rispetto alle sue origini. Se, al contrario, non è suscettibile di alcun cambiamento, il manufatto edilizio, o ciò che resta di esso, non ha altra sorte che continuare a consumarsi. Fino alla conseguenza estrema: diventare rudere. In questo caso, l’edificio-scarto dopo aver perso il diritto di residenza nella vita della città, migrerà nel ricordo fotografico, per finire nell’inconscio urbano da dove, di tanto in tanto, salterà fuori come testimonianza privata di un paesaggio immutabile.

La riflessione sugli scarti presuppone una ricognizione di questi edifici, delle loro condizioni di contesto, delle loro caratteristiche tecnico-costruttive ma, soprattutto, del senso che questi manufatti edilizi hanno assunto rispetto ai paesaggi della città contemporanea. Lo scarto appartiene, infatti, a una configurazione territoriale molto diversa da quella originaria. Tuttavia se l’intento è stabilire il valore venale, l’operazione non è difficile. La valutazione basata sulle logiche di mercato, però, può essere sufficiente per un’agenzia immobiliare, per impostare un programma di riqualificazione, per dare avvio a un piano urbanistico ma non dice niente sulle cause che hanno portato ad abbandonare il fabbricato, non proferisce parola su come lo stesso fabbricato sia diventato residuo territoriale inutilizzato, né lascia trapelare nulla sul progressivo disfacimento del suo organismo costruttivo.

Ogni scarto è testimonianza di un trauma; è attestato edilizio di una diaspora familiare, di trasferimenti improvvisi, di lutti mai più elaborati altrove; è racconto inespresso di cui difficilmente vi sarà mai traccia scritta. Orfani delle funzioni che furono, gli scarti sono edifici che invitano a osservare la realtà secondo la sua doppia declinazione: tutto ciò che è rimasto ma anche tutto ciò che non è più.

Quello che colpisce degli scarti è il confronto tra l’immobilità del presente e la dinamicità delle biografie anonime che qui avevano dimora temporanea. La nudità tridimensionale del corpo di fabbrica rispetto alla topografia interiore che una volta la animava. Lo stare in attesa di costruzioni che sembrano aver esaurito tutte le aspettative possibili.

Probabilmente è proprio per questo che gli scarti vanno interrogati non come figure dello spazio ma come figure del tempo che pongono alla città contemporanea due domande essenziali: quando riconquistare la loro vecchia forma a un nuovo uso? Quando desistere?

Un primo passo verso una possibile risposta sta nell’identificazione delle figure dell’oblio: il ritorno e l’abbandono.

La figura del ritorno ha come ambizione principale quella di dare una prospettiva al passato che fu. È un nuovo inizio che può avvenire quando si creano le condizioni per la riconversione del manufatto edilizio. Nella figura del ritorno si danno due possibilità: dare continuità al passato perduto, come pure, ricominciare daccapo con presupposti radicalmente diversi da quelli di una volta. Nel primo caso è l’alta qualità architettonica a prevalere come testimonianza di un passato, anche remoto, che torna a sperimentare la propria presenza territoriale. Nel secondo caso, poiché l’edificio-scarto non esprime particolari valori storico-paesaggistici l’impianto formale non viene riproposto integralmente ma diventa punto di partenza per i cambiamenti che le nuove destinazioni d’uso comportano. Qui l’intervento progettuale, con i suoi ampliamenti e le sue rivisitazioni, assume un valore inaugurale che segna una discontinuità netta con il passato.

La figura dell’abbandono non ha ambizioni per il futuro ma pone sé stessa come sguardo sul passato. Un passato che non tornerà perché l’edificio-scarto è ripiegato su sé stesso, su quello che è stato e che, con ogni probabilità, non sarà mai più perché ha smarrito la propria identità. È diventato un guscio vuoto; un contenitore che mantiene una forma senza che dentro vi sia nulla che possa essere definito un contenuto. Anche la figura dell’abbandono sottende due possibilità: l’attesa e la demolizione. La prima riguarda tutti quei casi in cui, il manufatto edilizio vive nella sua forma di rudere come memoria archeologica che, avendo perso la propria ragion d’essere, non ne trova più alcuna per tornare a esistere. Qui non c’è alcun intervento possibile perché prevale l’indifferenza della città che non ha bisogno di quel rudere. Molto diverso è il caso della demolizione. L’edificio-scarto, senza alcun riferimento alle sue prerogative formali, architettoniche o storico-paesaggistiche, viene eliminato fisicamente perché il contesto territoriale in cui è inserito ha assunto nuovi valori dal punto di vista economico-finanziario. Ecco perché l’unico intervento possibile è la demolizione. Qualsiasi altra possibilità che dovesse contribuire, sia pure in modo infinitesimo, a contrastare i nuovi disegni di valorizzazione fondiaria non viene neanche presa in considerazione.

L’edificio-scarto è una metafora del tempo che nel tempo si consuma o rinasce. È una linea sottile quella che separa due destini così diversi: su un versante la dimenticanza consente la rinascita e sull’altro il ricordo conduce alla rovina*.

 

Articolo uscito su Paesaggi di Versodove. Città, territori e scrittura, a cura di V. Bagnoli, V.M. Bonito, A.A. Clemente, F. Lombardo, V. Masciullo, S. Semeraro, Pescara, Sala Editori, 2017, pp. 71-74.

Foto di Valeria Reggi tratta da Offscapes. Beyond the Limits of Urban Landscapes, foto di V. Reggi e prefazione di Antonio A. Clemente, Trafika Europe, 2016; ed. it. Offscapes. La parte distante del paesaggio, Sala Editori, 2017.