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Dal n. 20 di Versodove – Paola Silvia Dolci, Diario del sonno

è uscito da qualche settimana, per Le Lettere – con postfazione di Marco Giovenale – Il diario del sonno, di Paola Silvia Dolci, di cui anticipammo una parte nel numero 20 del 2018, all’interno di un’apertura dedicata a letteratura e psicanalisi.

Riportiamo qui i testi pubblicati sulla rivista e uno stralcio della postfazione.

«Il flusso verbale, segmentato e teso, giustamente incurante dei soprassalti del lettore, abbandona o allenta ogni idea di coerenza temporale. Lascia affiorare e disegnarsi – soprattutto nelle prime parti del libro – i ricordi come sogni, i sogni come ricordi, nei loro legami latenti o palesi con la sessualità e l’aggressività, senza – spesso – definire cosa è sogno e cosa memoria. Il promemoria all’analista diventa in questo modo un resto di buio, rispettato come tale: quel trapestio confuso e non regolabile che si produce sull’orlo dell’inconscio. (E che non è immediatamente possibile verbalizzare, mettere in [viva] voce, pena la sua scomparsa sotto la cortina dei sintomi).

Ogni volta la scena raccontata, l’episodio, il sogno, si propone come chiave o comunque esposizione significativa di un evento circoscritto, senza che la porta che dovrebbe spalancare si apra veramente. Un intelletto ostinatamente revisionista direbbe che questo è dovuto precisamente allo spazio che all’inconscio (al soggetto dell’inconscio) è concesso nella narrazione: …cosa ti aspetti? il soggetto sta mescolando tutte le carte, mentre solo l’ordine (cronologico! narrativo, connettivo=correttivo) porterebbe all’ordine (mentale, legale, sociale).

Secondo un ben noto meccanismo analizzato da Lacan già nei Nomi del padre, l’interrogato (revisionista, ripeto) tenderebbe così a sostituirsi all’interrogante, all’analista, preinterpretando.

Invece il soggetto (che, come ricordava Bene, è subjectum) sta giustamente impressionando lastre fotografiche, fibre di carta. Che lo impressionano, retroagendo, pure anticipandolo.

Di una fotografia si domanda “Qual è il soggetto?”. Qui allora è tutto spiegato, e chiuso nella noce del doppio se non triplo significato: soggetto come oggetto (pietra, rem) della (non)narrazione; soggetto come colei che senza voce ricapitola salta ricostruisce slega e annoda (in prosa tracciata, tracce impresse, non oralmente); e soggetto come energia che si libera. E che “impressiona” quella ennesima figura del gioco che è il lettore, infine».

Da Diario del sonno

Ho 7 anni.

Siamo nello studio. Luci puntate e buio.

Con forza e fermezza il dottore mi strappa entrambi i lobi nei quali ho due grandi orecchini a cerchio. Mi scuoto, me ne andrei. Il dottore mi afferra gli avambracci e me li blocca sulla scrivania. Non posso muovermi. Senza fiato, ho paura.

Ho 21 anni.

Mi commuovo quando hanno un orgasmo dentro di me. (Rapporti nel periodo mestruale).

Ho 15 anni.

Io non sto bene e mi devo proteggere.

Ieri volevano trattenermi ancora in psichiatria.

T’informo non per spaventarti ma per farti capire che la situazione per me è grave.

Le frasi che ripeti con maggior frequenza sono “Esisto anch’io”, “Anch’io ho i miei limiti”, così se commetti errori tu sono giustificati e se sbagliano gli altri, noi siamo malvagi.

Ti aspettavi sorrisi e abbracci al tuo ritorno, sbagliavi. Non condivido quello che è stato il tuo comportamento.

Sono due anni che tra alti e bassi cerco di farmi perdonare, cosa poi? Scegliere di avere una vita mia?

Ho 28 anni.

Dottore,

Lei mi ha detto che le emozioni sarebbero affiorate nella misura in cui io fossi stata di grado di tollerarle, di guardare ai fatti e di ascoltarmi. Ho eseguito.

Mi ha chiesto con quali sentimenti ho accolto certe informazioni. Io mi sono chiesta come ne fossi giunta in possesso.

Dov’è il limite? Sono cattiva perché sento male? Sto sbagliando? Perché anche se è malata mi odia? E se la preghiamo in ginocchio di starmi lontana non si ferma davanti a niente come quando cercavo di scappare e chiudermi in una stanza e pur di raggiungermi si spaccava le mani?

I maltrattamenti sono sempre stati quotidiani. O forse io sono sempre stata troppo debole.

Perché vorrei comunque proteggerla se la voglio uccidere?

In quale modo tutto questo è legato al mio suicidio?

Per quanto riguarda i farmaci, per ora ho bisogno di restare lucida.

Ho 27 anni.

“Io ho visto in te la disperazione e la stupidità in tua madre. Su quel balcone tua madre era sorpresa e idiota, credo che si sia costruita un castello per non darsi colpe e quando ti ha vista le è venuto il dubbio che tu non fingessi.

Non mi spiego perché sia rimasta sul balcone e non sia scesa, il mio istinto di scendere e abbracciarti sarebbe stato più forte di qualsiasi cosa. Quando siamo tornati e mi sono presentato al portone di casa nostra per parlarle mi ha detto che tu avevi bisogno di lei e che quindi sarebbe salita. Sono una madre. È il dolore di una madre. Le ho detto di aspettare alla porta per venire a parlarti. Le ho riportato che tu non eri in grado di comunicare e lei ha ribadito che non importava se tu non ne eri in grado ma bisognava si facesse comunque. Le ho detto che forse più tardi o il giorno successivo ma questo non era il momento e ha ribadito che non importava e che andava fatto adesso, subito.

Quando ti ho afferrata mentre ti stavi buttando nella tromba delle scale le ho detto di andarsene e non l’ha fatto. Le ho detto che se restava avresti tentato di suicidarti e lei ha risposto che se fosse andata via avresti continuato comunque. Non vuole capire. Il fatto che la sua presenza ti portasse al suicidio non la frenava, anzi, voleva venirti ancora più vicino a strillarti le sue verità. Era più importante il suo parlarti che il fatto che tu vivessi. Significativo che dica uccidi me e invece non voglia leggere, ascoltare, capire e sentire dolore. Sa che non la ucciderai e vuole solo il martirio nelle idee ma non nei fatti. È convinta di sapere quello che è giusto per te e di importelo fino alla tua morte.

Posso dire con certezza che è pericolosissima e non è in grado di capire la gravità della situazione nemmeno vedendola con i propri occhi.

Continuano ad attribuire la responsabilità della situazione a entrambi noi, quando io riferisco loro solo quello che mi dici tu. Non è giusto.

Sono io che ti trattengo quando ti butti giù dalle scale, non tua madre, lei ti istiga.”

Ho 27 anni.

All’ingresso di via Ala Ponzone mi prende la paura, battito accelerato, bocca secca, mani e gambe che tremano. Se non mi accompagnasse qualcuno non entrerei.

Suono. Apre. Entro. Tolgo il cappotto, i guanti, gli occhiali da sole, mi siedo. Guardo Charcot e gli istogrammi degli internati nel manicomio di Cremona, humour noir, il dottore ce l’ha coi pazienti. Non posso fumare, i libri sono ordinati e non li sfoglio più. Ascolto, non si decifrano le parole ma i toni si distinguono bene. C’è questo ragazzo biondo e triste, ha un tono sommesso e un aspetto infelice, sembra rassegnato, mi fa tenerezza. La signora che l’ha preceduto un paio di volte nelle mie attese, lei rideva sonoramente, sembrava simpatica. La ragazza anoressica mi metteva tristezza, pareva arrabbiata.

Io sono astratta e non può vedermi nessuno.

Moltiplica per? venti? Sì, moltiplica pao per venti. Fanno quaranta telefonate in due mesi di confessioni di tentato suicidio, centosessanta ore di sedute, studio distrutto, silenzi dolorosi, risate isteriche, bugie, domande, resistenze, scenate, ricatti, recriminazioni.

Il dottore sposta la sedia alzandosi. Aprirà la prima porta, la seconda porta, mostrerà che non ha armi nella mano destra. Autodafé. L’Inquisizione è il mago di Oz con una faccia di pietra. La voce gli esce dalle spalle. Una specie di megafono metallico. L’ho capito che non vuole gli porti la mia analisi scritta ma io non riesco a parlare.

Quando porto i quadri invece è contento, porto i volti.

Mi piace questa atmosfera. Non mi era mai capitato di dialogare in questa dimensione.

Mi riprendo dopo un’ora o due.

Ho 28 anni.

Insisto nel non voler prendere i farmaci.

Ho 16 anni, e nascondo quello che scrivo perché anche quelle sono tutte bugie. Non posso sostenere che le mie poesie vengano lette in pubblico.

Ho 12 anni.

Le pareti e i pavimenti intonacati sono tinteggiati di bianco polveroso e sulle superfici i dislivelli sono eccessivi. La casa è del Settecento e non ha mai subito ristrutturazioni, il pavimento scricchiola a ogni passo ed è necessario muoversi con molta cautela, ho il terrore che crolli tutto. Lo schema delle stanze si ripete su almeno tre piani, l’ambiente è luminoso; è come se avessi visto quella casa molte altre volte ma in effetti non ne ho ricordo.

Una di quelle stanze è lo studio del dottore, lo incontriamo, si accorge della nostra presenza ma se ne va. Indossa un completo blu, giacca, camicia bianca senza cravatta; forse è di fretta, sembra indaffarato, forse ci evita, io credo che ci eviti, capisco che mi evita. Lo seguiamo. L’ambiente si oscura, il dottore si ferma di fronte a un acquario senza pesci colmo di acqua limpida ma non pulita ed è presente un’assistente. Non so se il dottore mi dica di mettere la testa nell’acqua, mi pare che mi consigli di guardare l’acqua trattenendo il respiro. Io obbedisco ma è violento e umiliante. Il dottore se ne va ed io trattengo il respiro finché ho fiato, sta ricreando la mia vita di frustrazione, mi fa altro male e non ho bisogno di questo, vorrei mi aiutasse senza causarmi ulteriore dolore.

Riavvolgiamo, torno indietro, mi sto recando nello studio del dottore per parlargli e dirgli quello che penso. In sala d’attesa l’arredamento è caldo e classico, ridondante. C’è una scala di legno, imponente, due rampe. Sto per percorrere l’ultima quando mi accorgo che ho la sigaretta in mano, non posso tornare indietro e gettarla in strada, sono in ritardo, senza pensare la butto nella tromba delle scale. Ho paura e scappo; torno ed è pieno di gente che spegne e guarda l’incendio, l’ho causato io e me ne vergogno e non lo posso dire. Il dottore è arrabbiato e spaventato, comunque distaccato, è seduto su uno scalino. Gli devo dire che sono stata io ma non posso farlo subito. Gli getto le braccia al collo, lo cerco davvero e mi metto a piangere disperata e angosciata.

Ho 16 anni.

Questa bestia che ho dentro in qualche modo deve uscire.

Ho 0 anni.

Perdo i denti. A volte anche i capelli. Mi smarrisco nei labirinti. Sono su una macchina che non so guidare e mi vado a schiantare. La folla. Cado col lettino dal ballatoio della nonna. Non sono in picchiata ma il letto si disfa progressivamente fino a quando l’unica protezione contro lo schianto è la mia impronta sul materasso. Polvere e cenere in turbini. Mi va malissimo il compito in classe di matematica che devo svolgere.

Ho 26 anni.

Ho molta paura. Giorni senza soluzione, senza fine. Come se il mondo fosse finito.

Ho 27 anni.

Mi sono buttata dalla finestra: tre mesi di carrozzella con le ossa fracassate, prova solo a immaginarti la rabbia di una che si vuole ammazzare e resta imprigionata su una carrozzella.

Ho 21 anni.

Un suono diverso da quello della pioggia sul lucernario, mi sono svegliata verso le tre e nevicava; la solita stanzetta buia, sgradevole, scarna. Due lettini. In uno dorme la ragazza bassa con i capelli neri, bruttina. Ce l’ho portata io e forse avrei dovuto fare sesso con lei. Lei se lo aspettava. Forse l’avevo convinta io. Ma non mi sento obbligata e non mi va, preferisco stare in piedi con l’uomo.

Ho 20 anni.

Consegno i regali di Natale a mia sorella: tre serpenti, non sono velenosi, diventeranno molto grossi, sono del tipo che per nutrirsi strangola la preda. Mia sorella scende le scale per andarsene e le cade il sacco con i serpenti. Io e lui osserviamo dal nostro pianerottolo quello sottostante. Mi spavento perché oltre ai tre serpenti si avvicina una grossa iguana. Ero certa che non fosse nel sacco, mi sarò sbagliata, distratta, non me ne sarò accorta.

Ho 13 anni.

La gente di cui mi fidavo mi ha tradita solo per idiozia.

Ho 26 anni.

Lui ha lavorato tutti questi mesi da casa e non mi ha mai persa d’occhio, forse l’amore è questo? Mi ascolta se gli parlo ma non chiede mai nulla, non mi chiede mai come sto, cosa penso.

Ho 18 anni.

“se questo è ancora il tuo indirizzo, so che almeno la curiosità ti sta facendo leggere. Ti capita mai di domandarti che fine ho fatto? ti ricordi di me? Ti scrivo solo due righe perché mi è capitata una cosa tra capo e collo e mi ha fatto capire che la lunga digestione del male che mi hai lasciato in ricordo dentro è finita.

C’è ancora qualcosa di nostro nella mia vita ma non è più doloroso; sta lì e tanto basta. E mentre scrivo mi sforzo ma non riesco proprio a immaginare come tu sia adesso. 

Mi sento me stesso quanto non l’ho mai sentito, e se non ti trovo nelle persone che ho incontrato, è perché non ho più il bisogno di cercarti.

Davvero non c’è dolore che non abbia fine, almeno questo di buono mi hai lasciato da imparare.

Paola, ti auguro tutta la felicità di cui sei capace…”

Ho 6 anni.

Seduta settima: lei non affronta la realtà per timore del fallimento.

Se pubblicano me, devono valere poco. Non ho una preparazione, sono ignorante, mi sento inferiore rispetto agli altri.

Non è che scappo dalla realtà per non subire fallimenti: scappo dalla realtà per non dover rinunciare ai miei desideri.

Seduta ottava: lei non sente sue le opere che scrive.


L’artigianato della grazia: un ricordo di Franco Battiato

È uno dei ricordi più piacevoli della mia – ma credo di poter dire: della nostra – avventura a Versodove. Franco Battiato era a Modena per un concerto, Alessandro di Prima, agevolato dalla sua catanesità, aveva fatto da apripista con Manlio Sgalambro, insomma il Maestro e il Filosofo avevano detto di sì alla nostra richiesta di una intervista.

Ci incontrammo in hotel, e mentre Sgalambro fissava Alessandro, Fabrizio Lombardo, Vincenzo Bagnoli e me con aria perplessa e un po’ torva, Battiato fu di una cortesia sorprendente, almeno per noi che non lo conoscevamo. Sorridente, curioso della nostra piccola impresa letteraria, aperto a discutere di qualsiasi cosa, addirittura premuroso. Più che una intervista fu una chiacchierata, piena di lampi interessanti, di ironia, di colpi di genio linguistici – «mi sento un manichino manicheo» – di piccole illuminazioni. E di dolcezza. La potete leggere qui sotto, oggi che il Maestro non c’è più e il rimpianto di non aver più potuto ascoltare, negli ultimi anni della malattia, la sua voce insieme mistica e disincantata, che non può permettersi di «perdere la lezione eterna e determinante datami magari da un fattorino mentre porta i bagagli», come ci disse provocando allegramente il severo ma in fondo divertito filosofo; la malinconia per la sua scomparsa si stempera un po’ nel ricordo ancora vivo, ancora emozionante di quel pomeriggio modenese.

Stefano Semeraro


In copertina: Franco Battiato, foto di Chiara Mirelli


È morto Lawrence Ferlinghetti – Versodove lo ricorda con un’intervista del 1995

«Il ruolo del poeta è ancora “messaggero degli eroi”, capisci, uno spirito libero cercatore di amore e libertà»: ci lascia – a 101 anni – Lawrence Ferlinghetti, poeta, pittore, traduttore, testimone dell’epopea beatnik e della grande generazione di poeti e narratori che rivoluzionò la letteratura americana degli anni ’50. Versodove lo ricorda affettuosamente con una breve intervista rilasciata dal poeta nel 1995:


Le ultime uscite di Prova d’artista/Galerie Bordas

Versodove è felice di segnalare le ultime bellissime uscite di Prova d’artista/Galerie Bordas, curata da Domenico Brancale:

René Daumal, La Seta. Testo del 1925 (Traduzione di Bruno di Biase)


*
Franck Venaille, Tre fasi di uno stato di costrizione (Traduzione di Bruno di Biase)


*
Paul Celan – Erich Einhorn, Tu sai cosa sono le pietre… Corrispondenza. Traduzione di Anna Ruchat, con uno scritto di Domenico Brancale. Immagini di Sophie Ko


*
Georges Perros – Luca Mengoni, Impossibile essere felici di esserlo, a cura di Mauro Leone. Immagini di Luca Mengoni


*
Stefan Hyner, I diari perduti di Romy Schneider (inedito). Una fotografia di Romy Schneider. Traduzione di Anna Ruchat

Prova d’artista/Galerie Bordas è a San Marco 1994/BI-30124 Venezia.

Tel : (+39) 0415224812galeriebordas@yahoo.it

http://www.galerie-bordas.com/prova-d-artista-edizioni.php

Immagine in evidenza di Sophie Ko.


Dal n. 17 di Versodove: «Alcune leggerissime varianti». Dai Racconti delle fate a Pinocchio

Nel 1876 Carlo Collodi pubblica il suo primo libro per ragazzi, dopo essersi rivolto per più di un trentennio al pubblico degli adulti. Non si tratta, però, di un’opera originale, ma di una traduzione: I racconti delle fate, versione italiana di alcune fiabe di Perrault, Madame d’Aulnoy e Madame Leprince de Beaumont. Finora poco studiati, forse perché sono “soltanto” una traduzione, I racconti delle fate rivelano a un’analisi approfondita aspetti sorprendenti, non solo per quanto riguarda le qualità intrinseche del testo, ma anche per quanto riguarda i suoi rapporti con Pinocchio.

Numerosi ed eterogenei sono i riferimenti letterari in Pinocchio, dai classici come Ovidio e Dante alla fiaba popolare e d’autore. Fra questi si trovano le fiabe di Charles Perrault e di due scrittrici francesi, Madame d’Aulnoy e Madame Leprince de Beaumot, un tempo piuttosto note e oggi conosciute soprattutto per i loro più celebri racconti, L’Oiseau bleu e La Belle et la bête. Anche se non sempre è facile individuare questi ricordi di lettura nel romanzo di Collodi, tanto essi paiono modificati e deformati nella scrittura.

Si pensi, ad esempio, al Lupo e astuto e feroce del Petit Chaperon rouge, a prima vista così poco riconoscibile sotto l’aspetto misero e malridotto di una Volpe zoppa e di un Gatto cieco, ma così simile a loro per quel suo modo garbato di rivolgersi alla vittima ingenua e troppo loquace incontrata per strada, in una scena che è la versione comica di quella ideata da Perrault; o alla fata Candida, che nel Prince Chéri di Madame Leprince de Beaumont segue da lontano l’educazione del principe suo protetto, pronta a punirlo con pedagogico sadismo a ogni suo errore, sfumata nell’evanescente presenza della Fata dai capelli turchini; oppure a Barbablù e all’Orco del Petit Poucet, fusi assieme nel personaggio di Mangiafoco  ̶  dalla lunga barba non più blu ma nera come l’inchiostro  ̶  che ricorda il suo antenato orco non solo per le abitudini alimentari (il montone cotto allo spiedo), ma anche e soprattutto per quel senso di terrore, per quella «gran paura» che è in grado di suscitare nelle sue inermi e piccole vittime (le marionette che tremano «come tante foglie»), sopraffatte dalla sua imponenza fisica.

Se l’autore di Pinocchio è riuscito ad assimilare e far propri questi e altri episodi e personaggi delle fiabe francesi, trasformandoli fino a renderli quasi irriconoscibili, è perché quelle fiabe le conosceva assai bene. Le aveva infatti tradotte in un’antologia, I racconti delle fate, pubblicata dell’editore Paggi nel 1876, in una collana destinata agli studenti delle scuole elementari e superiori: la «Biblioteca scolastica». La traduzione costituisce anche il primo libro per ragazzi scritto da Collodi, che fino a quel momento, e per più di un trentennio, si era rivolto esclusivamente al pubblico degli adulti. Non a lui, però, e neppure all’editore, come a lungo si è creduto, si deve la scelta dei brani antologici da inserire, che sono stati tratti invece dai Contes de fées tirés de Claude [sic] Perrault, de Mme d’Aulnoy et de Mme Leprince de Beaumont, usciti nel 1866 nella celebre «Bibliothèque rose illustrée» di Hachette.

La «Biblioteca scolastica», che annoverava i nomi più illustri della letteratura per l’infanzia dell’epoca, dal Thouar alla Baccini, aveva l’ambizioso scopo, come si legge in una nota introduttiva di Felice Paggi al catalogo, di proporre agli studenti italiani opere originali o in traduzione scritte «in buona ed elegante forma». Proprio alla forma, in effetti, il traduttore dei Racconti delle fate mostra particolare attenzione, specificando nell’Avvertenza di avere apportato «alcune leggerissime varianti» linguistiche e stilistiche rispetto agli originali. Varianti che, stando alle tipologie individuate in quel testo liminare, possono dirsi «di vocabolo» (termini colloquiali o gergali come «broccola», «giuccherie», «sgonnellare»), «di modi di dire» (locuzioni idiomatiche come «febbrone da cavallo», «ridursi al lumicino», «imbruttire a occhiate», o motti proverbiali come «gli uomini non si misurano a canne»), o «di andatura» del periodare, che nella prosa di Collodi tende a seguire il ritmo veloce e spigliato della lingua parlata.

Tutti questi piccoli ritocchi, secondo Renato Bertacchini, contribuiscono a un cambiamento del registro rispetto all’originale, a un sostanziale abbassamento del tono, più dimesso e popolare, che finisce per dare ai racconti francesi un’aria familiare e casalinga, e un po’ toscana per la schietta comicità, insinuando nel loro magico universo fiabesco una vena di realismo quotidiano. Già nella traduzione, pertanto, comincia quel processo per cui in Pinocchio anche gli elementi più fantastici si colorano di tinte realistiche. D’altra parte il tradurre implica sempre l’appropriarsi lento, paziente e minuzioso della parola e dell’immaginario altrui, per restituirli inevitabilmente trasformati dall’incontro con i propri. Così, nel romanzo, la Fata potrà abbandonare i suoi preziosi ornamenti barocchi per tramutarsi, come già notava Pancrazi, in una brava donnina del popolo – intenta, nell’isola delle Api industriose, a trasportare brocche d’acqua – mentre l’orco della tradizione fiabesca potrà vestire i panni di un burattinaio, figura di artista girovago assai diffusa a quei tempi, o di un avido trafficante di bambini (l’Omino di burro), che sotto l’apparenza di una gentilezza untuosa e melliflua maschera il più cinico interesse per il profitto.

Esistono tuttavia nella traduzione alcuni luoghi specifici del testo in cui le varianti appaiono tutt’altro che «leggerissime», e in alcun modo riconducibili a quelle indicate nell’Avvertenza. Quei luoghi sono le  moralités poste alla fine dei contes di Perrault e Madame d’Aulnoy, che Collodi non si fa scrupolo di prosificare, riassumere, tagliare o ampliare a seconda delle esigenze. È del resto ben comprensibile che, in un libro con uno scopo educativo, il traduttore si permettesse una maggiore libertà proprio nelle conclusioni, in cui si esplicita il senso morale delle storie. Tanto più che quelle moralités,  elaborate dagli autori francesi quasi due secoli prima per un pubblico nobile e adulto, dovevano essere attualizzate e trasformate in insegnamenti utili a ragazzi italiani di prevalente estrazione borghese; compito di cui Collodi, già da tempo interessato alla letteratura per l’infanzia e all’editoria scolastica, doveva sentire tutta la difficoltà e la responsabilità.

Più che analizzare i contenuti di quegli insegnamenti, ispirati agli ideali laici e borghesi della laboriosità e dell’ingegnosità poi ripresi in Pinocchio, importa qui considerare il modo in cui quei contenuti vengono presentati, perché quel modo è uno degli aspetti certamente più interessanti e originali di questa traduzione, sebbene sia stato quasi del tutto trascurato dalla critica. Proprio la maniera in cui le moralités sono esposte rivela infatti la novità dell’approccio pedagogico nel rapportarsi a un pubblico di ragazzi: Collodi non si rivolge a un lettore modello ubbidiente e ben disposto ad apprendere, ma a un giovane lettore restio a farsi indottrinare dagli adulti e a sorbirsi lezioncine morali; per vincere le resistenze di questo lettore, predisponendolo ad accogliere e recepire gli insegnamenti, deve allora innanzitutto trovare la forma giusta per trasmetterli.

Il primo e principale problema cui Collodi si trova di fronte è tuttavia la scarsità, o a volte persino l’assenza di rilevanti significati morali in questi racconti, che dovevano in alcuni casi apparirgli come pure fantasticherie. In effetti, nel Catalogo della Biblioteca Scolastica di Felice Paggi del 1876, l’editore (o chi per lui) sembra quasi scusarsi con un certo imbarazzo del fatto che non tutti i racconti dell’antologia «si prefiggono di trattare e di svolgere qualche grande principio morale». In questi casi il narratore – il traduttore fattosi narratore delle storie che racconta – reagisce prendendo le distanze dal testo con divertita rassegnazione («se tutti i racconti delle fate dovessero aver per forza una morale, questo racconto qui non saprebbe proprio dove andare a pescarla», si legge al termine della Cervia nel bosco di Madame d’Aulnoy), o se ne dissocia ironicamente, come nell’ardito nonsense col quale conclude il Gatto con gli stivali (racconto giudicato istruttivo «segnatamente per i gatti e per i marchesi di Carabà», cioè per nessuno); ma in tal modo non tradisce certo lo spirito dei racconti di Perrault, che per primo fa spesso ricorso all’ironia nelle sue moralités.

Quando, invece, le morali gli sembrano convincenti o quantomeno proponibili, Collodi fa di tutto per alleggerirle da ogni pesantezza didascalica. Così, ad esempio, ricorre al condizionale per evitare un tono saccente e perentorio («da questo racconto […] si potrebbe imparare che», in Barba-blu), o sottrae i princìpi etici al discorso del narratore convertendoli in massime proverbiali, emanazione collettiva della saggezza popolare (« ̶̶ Gli uomini non si misurano a canne! ̶̶ », alla fine di Puccettino), in modo da renderlo semplice portavoce di valori condivisi. Oppure ancora, con più nascosto e sottile artificio, nelle fiabe di Madame d’Aulnoy lascia che siano i personaggi stessi a farsi carico di quei princìpi, affidandoli alla loro voce e al loro pensiero. Ecco allora che nell’Uccello turchino non è il narratore in prima persona, come nel testo francese («à mon sens»), a esporre il senso morale della storia, ma il protagonista, il Re Grazioso, al quale i lettori sono invitati a rivolgersi in un breve quanto impossibile dialogo («Domandatelo al Re Grazioso: ed egli vi risponderà: meglio diventare uccelli turchini, corvi e anche anatre palustri, piuttosto che sposare una Trotona, alla quale non si voglia bene»).

Nella Bella dai capelli d’oro, invece, Collodi immagina che Avvenente abbia lasciato ai suoi figli un libro di ricordi, un libro curioso fatto di sole pagine bianche tranne l’ultima, in cui il principe avrebbe annotato «di proprio pugno» le poche fondamentali regole di comportamento apprese durante la propria vita. Quelle regole, espresse ancora una volta sotto forma di massime, si rivolgono con un generico “tu” al destinatario («A ogni modo tieni sempre a mente che un benefizio fatto, non è mai perduto»), che include dunque non soltanto ciascuno dei figli di Avvenente, ma ciascun lettore di quella storia. Di nuovo allora, per il tramite del libro nel libro, si instaura un dialogo tra lettore e personaggio durante il quale il narratore si fa da parte, per lasciare che sia il personaggio a comunicare quanto appreso dalla propria esperienza. In questo modo il lettore, che in quel personaggio si identifica, può avere l’impressione che quella morale finale non gli cada addosso dall’alto, dal sentenziare di un narratore adulto e giudizioso, ma emerga naturale dalla storia.

Pure nella Gatta bianca Collodi inserisce una cornice di sua invenzione, un altro libro nel libro che prende stavolta la forma della cronaca («La cronaca di quel tempo racconta che Gatta Bianca diventò il modello delle buone mogli e delle madri sagge e perbene. E io ci credo»), riducendo il narratore a garante in prima persona («E io ci credo») della sua veridicità; e presenta la conclusione morale della storia non come astratto precetto, ma come frutto dell’esperienza della protagonista («Dal trist’esempio avuto in casa, essa aveva imparato a sue spese che le follie e i capricci delle mamme spesse volte sono cagione di grandi dispiaceri per i figliuoli»). Anche in Pinocchio, del resto, l’esperienza sarà condizione essenziale dell’apprendimento: il burattino imparerà infatti dai propri errori, e non dai precetti che gli verranno impartiti.

Il narratore dei Racconti delle fate, sia che attenui il proprio giudizio col condizionale, che prenda le distanze dal dettato originale attraverso l’ironia, o che attribuisca ai personaggi il senso morale della storia, pare sempre dunque rifuggire dall’attribuirsi la completa responsabilità enunciativa degli insegnamenti. In questo modo evita di fare la figura del grillo parlante, saccente dispensatore di norme, per assumere un tono più bonario e conciliante,  scherzoso e giocoso, con cui più facilmente può conquistarsi l’attenzione e la fiducia del suo giovane pubblico. Pur tenendosi un po’ in disparte quando si tratta di impartire lezioni, quel narratore non cerca di farsi invisibile dietro al racconto, ma interviene in prima persona, come abbiamo visto, rivolgendosi confidenzialmente al proprio lettore. Le diverse voci narranti delle fiabe francesi sono ridotte così a una sola e inconfondibile voce, che mantiene la sua identità in tutti i racconti.

Questo narratore, dotato di una sua ben riconoscibile personalità, prefigura insomma quello di Pinocchio, che nel celebre incipit si azzarda a giocare un tiro mancino al suo pubblico, smentendone immediatamente le previsioni, non tanto per frustrarlo o sconcertarlo, come a volte è stato detto, quanto per cercarne la complicità attraverso lo scherzo: « – C’era una volta… – Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.  ̶  No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno». I ragazzi, infatti, non potranno che abbandonare ogni diffidenza verso quel narratore un po’ burlone, sicuri che un tipo così spiritoso non si azzarderà a far loro la morale come un serioso pedagogo, abituato a imporre le sue regole dall’alto. In effetti anche in Pinocchio, come spesso nei Racconti delle fate, non è il narratore a enunciare la morale finale, ma il protagonista, che nelle ultime righe osserva soddisfatto: « – Com’ero buffo, quand’ero un burattino! e come ora son contento di esser diventato un ragazzino perbene!…». Conclusione che, proprio perché attribuita al personaggio, assume un significato meno stucchevolmente conservatore di quanto si potrebbe pensare: quei tre puntini di sospensione, come ha ben osservato Daniela Marcheschi, assumono infatti un valore ironico, lasciando intuire imprevedibili sviluppi nella vita di quello che è ora un ragazzino «perbene».  Così ancora una volta, come nei Racconti delle fate, l’ironia interviene ad alleggerire la tensione pedagogica del finale.

In quella traduzione, proprio il configurarsi di un unico narratore, così come di un’unica lingua e di un unico stile, permette all’eterogenea antologia francese di trasformarsi in un’opera unitaria e coerente, che per la naturalezza della scrittura pare un’opera originale. Era questo, d’altra parte, il modello traduttivo di Collodi, per il quale, come si legge in un suo articolo, una buona traduzione deve «lasciare incerto il lettore se egli abbia tra mano una traduzione, o meglio un’opera originale italiana». Questa incertezza fra traduzione e opera, e quindi fra traduttore e autore, è favorita dal frontespizio della prima edizione Paggi, in cui i nomi degli autori francesi sono accortamente sottaciuti, mentre è messo in bella evidenza quello del traduttore, che in tal modo viene ad assumere uno statuto quasi autoriale. D’altronde se, come scrive Meschonnic, le traduzioni che sanno resistere nel tempo senza invecchiare sono scrittura a pieno titolo, opere a tutti gli effetti quanto gli originali, allora I Racconti delle fate, ancora oggi leggibili con gusto, possono dirsi opera a pieno titolo; anzi, possono dirsi il secondo capolavoro collodiano dopo Pinocchio, che forse sarebbe stato molto diverso se il suo autore l’avesse scritto senza prima tradurre quelle fiabe francesi.

Veronica Bonanni

 

 

Veronica Bonanni (Rimini 1972), dottore di ricerca in Letterature Comparate (Università di Cagliari), è attualmente collaboratrice scientifica del CLE (Centre de recherche en langues et littératures européennes comparées, Université de Lausanne) e redattrice della rivista «Hamelin». Oltre a Archeologie letterarie. Balzac, Bandello e la tradizione della novella (Unipress, 2005), ha pubblicato numerosi articoli sulla letteratura italiana e francese e sulla letteratura per l’infanzia.


“Scrivile che sono vivo” – una lettera inedita di Paul Celan

Per celebrare l’anniversario dei 50 anni dalla morte di Paul Celan (20 aprile 1970), proponiamo una lettera dal carteggio Paul Celan e Erich Einhorn, Du weißt um die Steine… (Tu conosci il significato delle pietre…)Friedenauer Presse Berlin 2001.

Traduzione e commento di Anna Ruchat.

 

Einhorn è un amico di giovinezza di Paul Celan a Cernowitz, che, dopo essere stato ufficiale nell’esercito sovietico, lavorò a Mosca dapprima come insegnante di lingue (rumeno e italiano) poi come traduttore. A una prima lettera di Celan del 1944 in cui quest’ultimo informa l’amico della morte dei suoi genitori e chiede notizie, seguono altre 15 lettere tra il 1961 e il 1967, in cui il tema è la lingua russa, la poesia, le traduzioni di Esenin, Blok e Mandel’stam. Il riemergere di Celan dalle nebbie del passato e dell’esilio è una boccata di ossigeno per Einhorn, esiliato a sua volta nella Russia sovietica. Ma anche Celan appare desideroso di riagganciare quel rapporto stretto intorno al filo delle origini, della parola scritta, della lingua russa, della traduzione.

 

Kiev, 1. Luglio 1944

Mi trovo a Kiev (in trasferta)[1] per un paio di giorni ed è con gioia che colgo l’occasione di scriverti una lettera che ti raggiungerà presto.

I tuoi genitori[2] stanno bene, Erich, ho parlato con loro prima di venire qui. è già molto, Erich, non puoi immaginarti quanto.

I miei genitori[3] sono stati fucilati dai tedeschi. A Krasnopolka, sul Bug.

Erich, ah, Erich.

Caro Erich, dov’è Tanja Adler[4]?

So soltanto che è viva, ma dov’è? Scrivile, Erich, scrivile che sono vivo, che la prego di scrivermi. Al mio vecchio indirizzo. C’è molto da raccontare. Ha visto così tanto tu[5]. Io ho vissuto solo umiliazioni e il vuoto, un vuoto infinito. Forse potrai tornare a casa. Konrad Deligdisch[6] è tornato.

La signora Alper, la nostra buona signora Alper[7], è morta… Gerta è a Cernowitz.

Erich, ti prego, scrivi a Tanja, o magari spediscile un telegramma.

Dov’è Erika[8], sua madre non sa niente di lei

Ti abbraccio, Erich

Il tuo vecchio

Paul

 


[1]) Viaggio di servizio di Celan che allora lavorava come infermiere in una clinica psichiatrica di Cernowitz. Il lavoro gliel’avevano procurato Jakob Silbermann e Hirsch Segal per evitargli il servizio militare nell’esercito sovietico, dopo che, nel 1944, l’esercito sovietico aveva riconquistato Czernowitz.

[2]) I genitori di Erich Einhorn, Rosa e Moses Einhorn, riuscirono a sfiggire alla deportazione. Continuarono a vivere a Cernowitz fino alla morte di Moses Einhorn nel 1960, dopo di che Rosa Einhorn si trasferì a Mosca da suo figlio. Morì nel 1971.

[3]) Leo e Fritzi Antschel erano stati deportati nel giugno del 1942 in Transnistria nel tratto meridionale del Bug. Dalla cava di Cariera de piatră sulla riva occidentale del Bug, furono trasferiti in un campo a otto chilometri di distanza nel villaggio di Layzino. Di lì il 18agosto 1942 arrivarono nel villaggio di Michailovka. La madre di Celan lavorava alla mensa del campo. Il 17 settembre portarono Leo Antschel a Gaisin. Con il sopraggiungere del freddo, ormai del tutto privo di forze fu ucciso oppure, secondo altri racconti, morì di tifo. Pare che Celan abbia ricevuto la lettera di sua madre con la notizia della morte del padre nel campo di lavoro di Tabaresti quello stesso autunno. La notizia della morte della madre lo raggiunse nell’inverno del 1943 tramite un parente, BennoTeitler che era riuscito a scappare da un campo. Non si sa di più. Come si evince dalla lettera a Einhorn Celan doveva sapere delle cose in più o diverse sul destino dei suoi genitori e sulle circostanze della loro morte. Cita anche il il luogo in cui tutto sembra essere accaduto «Krasnopolka, sul Bug». Il villaggio di Krasnopolka o Krasnopolki si trova a est di Gaisin.

[4]) Tanja Adler-Steinberg era una degli amici più vicini a Celan. Originaria della Bessarabia, durante la guerra andò in Russia, lì si è sposata ed è poi tornata a Cernowitz con un figlio. Negli anni Settanta è emigrata in Israele dove è morta nel 1994.

[5]) Erich Einhorn fu trasferito con l’università di Cernowitz prima a Stavropol e poi nel 1942 a Os, in Kirghisia. Nel maggio del 1944 si trovava a Rostov sul Don dove era iscritto alla facoltà di storia. È lì che deve averlo raggiunto la lettera di Paul Antschel.  Dopo che fu richiamato, nel settembre del 1944, lavorò come interprete per l’esercito da giugno del 1945 a marzo del 1946 in Germania e da marzo del 1946 a gennaio del 1949 in Austria.

[6]) Konrad Deligdisch faceva parte anche lui del giro degli amici di Paul Celan. Come Erich Einhorn e molti altri studenti che erano stati evacuati con l’università di Cernowitz, andò in Russia ma già nell’estate del 1944 fece ritorno, sposò Gerta Alper e emigrò con lei negli Stati Uniti. Morì nel Montana nei primi anni 2000.

[7]) La signora Alper, i suoi due figli e la figlia Gerta negli anni1938-39, dopo la deportazione dei genitori, sono le persone più vicine a Paul Antschel. Anche Erich Einhorn fa parte di quella cerchia. Gerta e i suoi genitori furono deportati a loro volta dai tedeschi in Transnistria dove la signora Alper morì di tifo.

[8]) Erika Brettschneider, un’amica di Erich Einhorn. Morì durante la guerra.


Dal n. 21 di Versodove: “M’insogni tüt i not da ves parola” – una poesia di Davide Ferrari

Vi proponiamo una delle sei poesie in dialetto pavese (nella variante di Lardirago) di Davide Ferrari pubblicate sul n. 21 di Versodove.

 

M’insogni tüt i not da ves parola

mola asè par daslenguam e pö vegh

al corp da mola che in dal sogn l’afila

tüt i sogn ca vegna dop. M’insogni una

parola e son la vus, la lüs, e in un

secund e mes son in s’la l’üna a ved

se l’üna o l’altra bala ien asè

par scund ca suma bel e gnent o set

miliard spudà al Big Bang, al sogn d’i son,

ai sogn ch’i g’hän culur di occ, furma ad

parol.

 

Sogno tutte le notti di essere parola

molle abbastanza per sciogliermi e poi avere

il corpo da mola che nel sonno affila

tutti i sogni che vengono dopo. Mi sogno una

parola e sono la voce, la luce, e in un

secondo e mezzo sono sulla luna per vedere

se l’una o l’altra palla sono sufficienti

per nascondere che siamo un bel niente o sette

miliardi sputati al Big Bang, al sonno dei suoni,

ai sogni che hanno colore degli occhi, forma di

parole.

 

Davide Ferrari (1983), attore e regista, ha pubblicato le poesie di La cenere dei bordi (Subway Edizioni, 2013); il poemetto Eppure c’è una meta per quel fiato di universo (Subway Edizioni, 2014) e Dei pensieri la condensa (Manni, 2015), in dialetto pavese, con prefazione di Franco Loi. Conduce laboratori di teatro e scrittura creativa con i detenuti della Casa Circondariale di Pavia e di Voghera dove dirige la compagnia Maliminori. Fa parte del Sabir Ensemble, che propone brani originali e riarrangiamenti di canzoni ispirate alle tradizioni e culture del Mediterraneo.

 

Foto di Tiziana Cera Rosco, tratta dal n. 21 di Versodove.


Jamaican Roads – “Church Mary and the Mouse”: una poesia di Jenny Mitchell

Vi proponiamo una delle otto poesie di Jenny Mitchell uscite sul n.21 di Versodove, con la traduzione di Giorgia Sensi.

 

Church Mary and the Mouse

 

It wouldn’t be so hard to live now

that she’s free. It’s just she’s in such pain

and this might be the final time she lies

down on the pallet, thin as she’s become.

 

There’s no one in the shack with her

expect the mouse inside her throat:

a faint, persistent ache that crawls

out of her heart at night.

 

Is this the way death feels? Confused,

she looks up at the ceiling as the mouse

begins to run in her again. How did the little

creature find its way inside and live?

 

It seems to want to change her as it

scurries up and down, digging for the words

she never had the right to use when

forced to work out in the fields.

 

Words like ‘Love’ and ‘Yes’ and ‘Peace’.

Then just before she takes her final breath,

the mouse digs up the words she longed to say

the most: ‘Father, I am coming home to you.’

 

Church Mary e il topo

 

Non sarebbe così dura la vita ora

che è libera. Ma il dolore è tanto forte

e potrebbe essere l’ultima volta per lei

su questo giaciglio, tanto magra è.

 

Non c’è nessuno nella baracca con lei

tranne il topo che ha in gola:

un dolore debole, persistente, che le striscia

fuori dal cuore di notte.

 

È così che si sente la morte? Confusa,

alza gli occhi al soffitto mentre il topo

ricomincia a correrle dentro. Come ha fatto

quel topolino a entrare in lei e vivere?

 

Sembra che la voglia cambiare mentre

corre su e giù, e dissotterra parole

che lei non ebbe mai diritto di usare,

quand’era costretta a lavorare nei campi.

 

Parole come ‘Amore’ e ‘Sì’ e ‘Pace’.

Un attimo prima che lei esali l’ultimo respiro,

il topo dissotterra le parole che più di tutte

lei desiderava dire: ‘Padre, torno a casa da te’.

 

Jenny Mitchell è nata a Londra da famiglia di origine giamaicana: autrice di ricerche sullo schiavismo britannico oltreoceano, ha lavorato col British Museum e il Sindacato Nazionale degli Insegnanti a un progetto sul retaggio della schiavitù. Sue poesie sono apparse in diverse antologie, cartacee e online: MAMSIE: Studies in the Maternal (Birbeck); BlazeVOX 18; Dodo Modern Poets, The Writer’s Cafè Magazine Forum e Interno Poesia, in Italia. Le poesie The Blacklsappers, sono state messe in scena per BBC 2, e il suo dramma radiofonico English Rose è stato trasmesso da BBC Radio 4. Scrive su “The Guardian” e “The Observer”.

 

Foto di Tiziana Cera Rosco apparsa sul n.21 di Versodove.


“Sciavi duri sensa lingua”: l’intervista di Franco Baldasso a Boris Pahor uscita sul n.16 di Versodove

Riproponiamo qui di seguito un estratto dell’intervista di Franco Baldasso a Boris Pahor uscita nel 2012 su Versodove. (Leggi l’intervista completa gratuitamente sul n.16 di Versodove cliccando qui).


In Italia è diventato un caso letterario tre anni fa, quando la casa editrice Fazi pubblicò per la prima volta in traduzione il suo libro maggiore, Necropoli. Sloveno e triestino, Boris Pahor ha dovuto attendere 40 anni per veder riconosciuta la propria caratura di scrittore europeo nel paese dove vive, dopo i molteplici riconoscimenti in Francia e Germania. “La storia del mio libro è già un romanzo”, ci racconta, e dopo innumerevoli rifiuti e una controversa storia editoriale Necropoli diventa un bestseller. “Il merito è di Alessandro Mezzena Lona, giornalista del Piccolo di Trieste”, racconta Pahor “che ha consigliato il mio libro alla casa editrice dopo tutti questi rifiuti”. Pahor parla del suo libro quasi con pudore, quasi sorpreso di essere al centro della propria storia. Necropoli non è solo una lucida testimonianza dei Lager nazisti, ma è soprattutto una riflessione sul loro valore, sui loro valori, nel momento del ritorno. L’uomo libero che visita silenzioso il lager di Natzweiler-Struthof, nelle montagne dei Vosgi in Alsazia, è il prigioniero scampato che ritorna nel luogo costruito appositamente per la propria morte. Non diversamente da un altro grande scrittore dell’universo concentrazionario, il nobel Imre Kertesz, Pahor riflette sulla civiltà che l’aveva destinato a quel luogo, creato il campo appositamente per lui, e intravede continuità che disturbano dove la politica e la cultura a lui contemporanee hanno stabilito rotture. È questa continuità la nota inquietante che il libro segnala, quella tra i campi nazisti e una storia di violenza taciuta, cominciata per Pahor a sette anni. Quando, spettatore impotente, i fascisti triestini nel 1920 danno fuoco al Narodni Dom, la “casa nazionale slovena” nella città da pochissimo italiana. L’incendio è la negazione non solo della possibilità all’autodeterminazione per la minoranza slovena in Venezia Giulia, ma della loro stessa esistenza. Sistematiche discriminazioni razziali, programmi di snazionalizzazione delle minoranze slave seguiranno sotto il regime. Il giovane Pahor non può andare a scuola, i suoi perdono il lavoro, la sua lingua proibita. Come egli stesso racconta, viene chiamato “sciavo duro sensa lingua”. Queste vicende sono narrate nei suoi racconti, ma anche nella interessante intervista di Mila Orlić, Tre volte No. Memorie di un uomo libero (Rizzoli, 2009).

Allo scoppio della guerra Pahor è costretto a combattere in Africa con l’esercito fascista, e come membro della resistenza “italiana” è arrestato dai nazisti dopo l’8 Settembre. Prima come tragedia, poi come farsa direbbe Marx: Pahor che combatte per gli Sloveni oppressi dal nazionalismo italiano, viene spedito in lager e costretto a morirvi da “italiano”. Pahor scrive in Necropoli che la sua salvezza è stata anche il rifiuto di questa arbitrarietà.

Ma il rifiuto di cui il libro si fa portavoce è anche e soprattutto l’assoluzione del dopo, generale aspetto della politica italiana. Non solo dell’immediato Dopoguerra. Anche in seguito al grande successo e alle ripetute apparizioni pubbliche, Pahor a 97 anni si ostina a protestare la propria perdita.

R. La casa editrice lanciò La mia Necropoli [sic] come una vera e propria scoperta. Quando uno pubblica un libro sui campi, mica si corre tutti a comperarlo, no? E invece ha avuto successo in tutta Italia, tanto che il sindaco di Trieste mi ha offerto di parlare in pubblico sul tema, ma ho rifiutato.

D. Il motivo?

R. Ho chiesto che si parlasse anche del fascismo, non solo di Necropoli. Non si può parlare solo di una tragedia: il fascismo ha rovinato 10 anni della mia gioventù. Ho dovuto imparare lo sloveno da autodidatta e la mia cultura nascondendomi. Non ci sono solo i crimini dei Nazisti e dei comunisti, le foibe… bisogna stare attenti alle cifre quando si parla di Olocausto italiano. Non si parla dei più di 100.000 sloveni e croati che hanno lasciato le loro terre durante il fascismo. Il problema è sempre quello di raccontare solo ‘una’ storia. Personalmente ho sempre grande piacere di incontrare i giovani – hanno desiderio di conoscere la storia, i miei libri li comprano non solamente per leggere dei crimini nazisti.

[…]

D. Si possono avvicinare il prolungato disinteresse per la sua opera e il mancato riconoscimento dei crimini di guerra in Italia?

R. ll circolo vizioso della pubblicazione della mia Necropoli è la conseguenza di questi “sciavi duri sensa lingua”. Storicamente l’imperialismo italiano è nato anche prima del fascismo, fin da Carlo Alberto. Io sono nato nel 1913 come cittadino austriaco, allora la mia non era una minoranza, lo sloveno la terza lingua. Gli italiani erano numericamente superiori. Giudicavano gli sloveni di Trieste perché erano soprattutto contadini che portavano i prodotti dalla campagna in città e lavoratori del porto, che servivano la borghesia triestina. E poi avevano interesse a denigrarci perché a noi non interessava l’unione con l’Italia, non ci conveniva diventare cittadini italiani. C’era un precedente storico: i cittadini del Friuli, i quali avevano vissuto per secoli sotto Venezia senza nessuna paura della snazionalizzazione. Quando nel 1870 il Friuli diventa parte dell’Italia, subiscono l’assimilazione forzata, anche prima dei fascismi che hanno continuato quanto aveva già cominciato l’Italia liberale. Noi nel ’18 avevamo combattuto dalla parte austriaca non per l’Impero ma per difendere le terre che sarebbero divenute italiane. Dopo la disfatta, gli Sloveni si sono trovati i più a mal partito tra i popoli dell’ex Impero Asburgico. Per salvarsi la Slovenia ha dovuto offrirsi a Belgrado. Nonostante fossimo da sempre Mitteleuropa, la Slovenia diventò per forza una sorta di ente Balcanico. L’idea federativa dietro alla ‘seconda’ Jugoslavia sarebbe stata positiva se non ci fosse stato il partito unico, e Tito come ‘Re’.

D. Come si situavano a livello culturale gli sloveni nella Jugoslavia titina?

R. Con questa situazione la Slovenia non poteva che essere ancora una volta perdente. Anche a livello culturale, uno scrittore sloveno per ottenere riconoscimento anche in Europa non aveva altra scelta che passare prima per Belgrado. Personalmente ero critico del comunismo come dittatura e insieme a mia moglie abbiamo diretto e sostenuto la rivista Zaliv (“Il Golfo”) dal 1966 al 2000, dove esponevo le mie idee e ospitavo quelle altrui perché la lotta di liberazione era stata pluralistica. Nel 1975, per un articolo pubblicato, mi fu proibito per un anno di entrare in Jugoslavia.

[…]

D. Mi racconta l’incontro con Imre Kertesz?

R. È stato molto bello. I francesi l’hanno organizzato nel semestre di presidenza della comunità europea. “Le Figaro” ci dedicò una pagina insieme con altri scrittori ‘dell’Europa Unita’. Lui tuttavia era ammalato e si è dovuto fare l’anno seguente. C’era gente che non poteva entrare nel teatro perché era tutto pieno. Lui ha parlato in ungherese tradotto, io in francese. Parlavamo su due binari paralleli, venivamo da diverse esperienze: io della questione slovena e di come nel campo non volevo morire da italiano – come ho scritto in Necropoli. Lui, ebreo, è stato a Buchenwald, da cui il campo di Dora dipendeva. Eravamo un po’ ‘soci’. Durante l’incontro ci siamo capiti anche quando Kertesz parlava di una ‘certa nostalgia del campo’. Io sono tornato due volte a dieci anni dalla guerra, con la mia vecchia Fiat. Io parlerei piuttosto di un bisogno piuttosto che una nostalgia: di fronte a quello che il mondo ha fatto di male dopo la guerra. Penso al Vietnam, a Pol Pot in Cambogia, più recentemente a Sarajevo e al trattamento ricevuto dalle donne musulmane, violate dai soldati serbi perché concepissero un servo ortodosso. La normale speranza di uno che si salva da un campo di concentramento è che qualcosa debba cambiare nella vita della gente, invece non è cambiato niente…

 

Boris Pahor è nato nel 1913 a Trieste. Laureato a Padova vi ha insegnato Lettere italiane e slovene. Durante la seconda guerra mondiale ha fatto parte della resistenza antifascista slovena ed è stato deportato nei campi di concentramento nazisti. Nel 2007 ha ricevuto la Legion d’Onore. In italiano, oltre a Necropoli (Fazi Editore 2008), sono stati pubblicati i suoi romanzi Il rogo nel porto, La villa sul lago e Il petalo giallo.

 

Foto: Claude Truong-Ngoc / Wikimedia Commons

 


Gabriele Frasca: Vent’anni in dieci pezzi facili – una selezione dei sonetti pubblicati sul n.9/10 di Versodove

Vent’anni in dieci pezzi facili: riproponiamo qui cinque dei dieci sonetti di Gabriele Frasca usciti sul n. 9/10 di Versodove nel 1998 (clicca qui per leggere gratuitamente online l’intero numero). I dieci testi erano in gran parte inediti al momento della pubblicazione (cinque e sei erano già compresi in Lime). I primi quattro anticipavano la seconda edizione, ampliata, di Rame (Zona, 1999) e gli ultimi quattro la raccolta Rive (Einaudi, 2001).

 

uno

 

che piega espelle questa pulsazione

che plasma suoni sulle piaghe infette

spingendo pece nelle falle aperte

per cui diventa affetto ogni emozione

e quale plesso ancora predispone

di percezioni che si dànno incerte

la nicchia dove si compone inerte

un pensiero per ogni repulsione

e poi da dove affiora questa forma

che viaggia voglie quanto più s’appresta

a raggelare vita nella norma

come se infine ciò che si protesta

vivo vivesse per calcare un’orma

la testa si risponde dalla testa

(giugno 1979)

 

 

due

 

saranno stati gli ultimi colori

che stampigliati sui bronchi degli alberi

gelarono in crepuscolo i bagliori

d’un susseguirsi di tramonti e albe

a fare fosse autunno in questi cuori

dove ciò che brillò rimane in scialbe

figure tratte a scivolare fuori

presto per quanto tengano le valve

della memoria dove striscia solo

quanto si perde e si ritrova come

un’emersione senza superficie

così gli uccelli che lanciati in volo

tornano in paglia sfiorandosi il nome

che li fissa alla rigida radice

(settembre 1978)

 

 

cinque

 

prima. prima che giunga. il dopo. quando

non vi soggiunge il dopo. né altro più.

né ancora meno. chiedere. frugando

prima. del prima. se tornare su.

oppure stare. riafferrare il bandolo.

e ancora cominciare. andare giù.

prima del prima. alla cieca. allo sbando.

sentirsi dire tu. poi dirlo. tu.

fredda. sottile. ripassa la lima.

gratta i pronomi ai corpi a poco a poco.

finché s’ammucchia polvere dal prima.

irresponsabile. del fioco scopo

di congiungere il baratro alla cima.

da cui si rovinò. prima del dopo

(febbraio 1989)

 

sette

 

stasera come sempre sto sospeso

a risentire quello che mi sento

schiudersi dentro dove s’è già spento

quello stizzo che fuori sempre acceso

arse soffiando con un suono teso

e lungo come il sibilo del vento

o come quello sfrigolare lento

delle scariche statiche che preso

una canale chissà quanto remoto

risuona nella radio d’una quieta

rassegnata improvvisa nostalgia

di tutto quanto ignoto è invece noto

se lo si prende come propria meta

o si riaggiusta un po’ la sintonia

(marzo 1996)

 

 

dieci

 

e intanto perso in tutti gli anni persi

a sperdere parole che imparate

potessi in parte dire riparate

da quanto si spaiò su dai sommersi

spartiti che rileggono gl’inversi

accordi in cui s’infiggono le date

come note da dare riversate

nel nitore del niente dei miei versi

chiedo d’essere solo in questo colpo

che regge la mia voce che rilegge

il vuoto immesso dentro questa polpa

sonora mentre intona la sua colpa

scolpita nello sforzo che fa il corpo

per sperperare all’aria le sue schegge

(gennaio 1998)

 

Gabriele Frasca (Napoli, 1957) è uno scrittore, saggista e traduttore italiano. Ha pubblicato le raccolte di versi Rame (Corpo 10, 1984), Lime (Einaudi, 1995), Rive (Einaudi, 2001) e Prime (Luca Sossella editore, 2007); i romanzi Fermo volere (Corpo 10, Milano, 1987), Santa Mira (Cronopio, 2001) e Dai cancelli d’acciaio (Luca Sossella editore, 2011); la raccolta di testi teatrali Tele (Cronopio, 1998) e i saggi Cascando. Tre studi su Samuel Beckett (Liguori, 1988), La furia della sintassi. La sestina in Italia (Bibliopolis, 1992) e La scimmia di Dio. L’emozione della guerra mediale (Costa & Nolan, 1996). Ha tradotto Un oscuro scrutare di Philip K. Dick (Cronopio, 1993; nuova edizione: Fanucci, 1998) e Watt di Samuel Beckett (Einaudi, 1998).

Foto di copertina di Dino Ignani. Tratta da: http://www.insulaeuropea.eu