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Dal n. 20 di Versodove – Paola Silvia Dolci, Diario del sonno

è uscito da qualche settimana, per Le Lettere – con postfazione di Marco Giovenale – Il diario del sonno, di Paola Silvia Dolci, di cui anticipammo una parte nel numero 20 del 2018, all’interno di un’apertura dedicata a letteratura e psicanalisi.

Riportiamo qui i testi pubblicati sulla rivista e uno stralcio della postfazione.

«Il flusso verbale, segmentato e teso, giustamente incurante dei soprassalti del lettore, abbandona o allenta ogni idea di coerenza temporale. Lascia affiorare e disegnarsi – soprattutto nelle prime parti del libro – i ricordi come sogni, i sogni come ricordi, nei loro legami latenti o palesi con la sessualità e l’aggressività, senza – spesso – definire cosa è sogno e cosa memoria. Il promemoria all’analista diventa in questo modo un resto di buio, rispettato come tale: quel trapestio confuso e non regolabile che si produce sull’orlo dell’inconscio. (E che non è immediatamente possibile verbalizzare, mettere in [viva] voce, pena la sua scomparsa sotto la cortina dei sintomi).

Ogni volta la scena raccontata, l’episodio, il sogno, si propone come chiave o comunque esposizione significativa di un evento circoscritto, senza che la porta che dovrebbe spalancare si apra veramente. Un intelletto ostinatamente revisionista direbbe che questo è dovuto precisamente allo spazio che all’inconscio (al soggetto dell’inconscio) è concesso nella narrazione: …cosa ti aspetti? il soggetto sta mescolando tutte le carte, mentre solo l’ordine (cronologico! narrativo, connettivo=correttivo) porterebbe all’ordine (mentale, legale, sociale).

Secondo un ben noto meccanismo analizzato da Lacan già nei Nomi del padre, l’interrogato (revisionista, ripeto) tenderebbe così a sostituirsi all’interrogante, all’analista, preinterpretando.

Invece il soggetto (che, come ricordava Bene, è subjectum) sta giustamente impressionando lastre fotografiche, fibre di carta. Che lo impressionano, retroagendo, pure anticipandolo.

Di una fotografia si domanda “Qual è il soggetto?”. Qui allora è tutto spiegato, e chiuso nella noce del doppio se non triplo significato: soggetto come oggetto (pietra, rem) della (non)narrazione; soggetto come colei che senza voce ricapitola salta ricostruisce slega e annoda (in prosa tracciata, tracce impresse, non oralmente); e soggetto come energia che si libera. E che “impressiona” quella ennesima figura del gioco che è il lettore, infine».

Da Diario del sonno

Ho 7 anni.

Siamo nello studio. Luci puntate e buio.

Con forza e fermezza il dottore mi strappa entrambi i lobi nei quali ho due grandi orecchini a cerchio. Mi scuoto, me ne andrei. Il dottore mi afferra gli avambracci e me li blocca sulla scrivania. Non posso muovermi. Senza fiato, ho paura.

Ho 21 anni.

Mi commuovo quando hanno un orgasmo dentro di me. (Rapporti nel periodo mestruale).

Ho 15 anni.

Io non sto bene e mi devo proteggere.

Ieri volevano trattenermi ancora in psichiatria.

T’informo non per spaventarti ma per farti capire che la situazione per me è grave.

Le frasi che ripeti con maggior frequenza sono “Esisto anch’io”, “Anch’io ho i miei limiti”, così se commetti errori tu sono giustificati e se sbagliano gli altri, noi siamo malvagi.

Ti aspettavi sorrisi e abbracci al tuo ritorno, sbagliavi. Non condivido quello che è stato il tuo comportamento.

Sono due anni che tra alti e bassi cerco di farmi perdonare, cosa poi? Scegliere di avere una vita mia?

Ho 28 anni.

Dottore,

Lei mi ha detto che le emozioni sarebbero affiorate nella misura in cui io fossi stata di grado di tollerarle, di guardare ai fatti e di ascoltarmi. Ho eseguito.

Mi ha chiesto con quali sentimenti ho accolto certe informazioni. Io mi sono chiesta come ne fossi giunta in possesso.

Dov’è il limite? Sono cattiva perché sento male? Sto sbagliando? Perché anche se è malata mi odia? E se la preghiamo in ginocchio di starmi lontana non si ferma davanti a niente come quando cercavo di scappare e chiudermi in una stanza e pur di raggiungermi si spaccava le mani?

I maltrattamenti sono sempre stati quotidiani. O forse io sono sempre stata troppo debole.

Perché vorrei comunque proteggerla se la voglio uccidere?

In quale modo tutto questo è legato al mio suicidio?

Per quanto riguarda i farmaci, per ora ho bisogno di restare lucida.

Ho 27 anni.

“Io ho visto in te la disperazione e la stupidità in tua madre. Su quel balcone tua madre era sorpresa e idiota, credo che si sia costruita un castello per non darsi colpe e quando ti ha vista le è venuto il dubbio che tu non fingessi.

Non mi spiego perché sia rimasta sul balcone e non sia scesa, il mio istinto di scendere e abbracciarti sarebbe stato più forte di qualsiasi cosa. Quando siamo tornati e mi sono presentato al portone di casa nostra per parlarle mi ha detto che tu avevi bisogno di lei e che quindi sarebbe salita. Sono una madre. È il dolore di una madre. Le ho detto di aspettare alla porta per venire a parlarti. Le ho riportato che tu non eri in grado di comunicare e lei ha ribadito che non importava se tu non ne eri in grado ma bisognava si facesse comunque. Le ho detto che forse più tardi o il giorno successivo ma questo non era il momento e ha ribadito che non importava e che andava fatto adesso, subito.

Quando ti ho afferrata mentre ti stavi buttando nella tromba delle scale le ho detto di andarsene e non l’ha fatto. Le ho detto che se restava avresti tentato di suicidarti e lei ha risposto che se fosse andata via avresti continuato comunque. Non vuole capire. Il fatto che la sua presenza ti portasse al suicidio non la frenava, anzi, voleva venirti ancora più vicino a strillarti le sue verità. Era più importante il suo parlarti che il fatto che tu vivessi. Significativo che dica uccidi me e invece non voglia leggere, ascoltare, capire e sentire dolore. Sa che non la ucciderai e vuole solo il martirio nelle idee ma non nei fatti. È convinta di sapere quello che è giusto per te e di importelo fino alla tua morte.

Posso dire con certezza che è pericolosissima e non è in grado di capire la gravità della situazione nemmeno vedendola con i propri occhi.

Continuano ad attribuire la responsabilità della situazione a entrambi noi, quando io riferisco loro solo quello che mi dici tu. Non è giusto.

Sono io che ti trattengo quando ti butti giù dalle scale, non tua madre, lei ti istiga.”

Ho 27 anni.

All’ingresso di via Ala Ponzone mi prende la paura, battito accelerato, bocca secca, mani e gambe che tremano. Se non mi accompagnasse qualcuno non entrerei.

Suono. Apre. Entro. Tolgo il cappotto, i guanti, gli occhiali da sole, mi siedo. Guardo Charcot e gli istogrammi degli internati nel manicomio di Cremona, humour noir, il dottore ce l’ha coi pazienti. Non posso fumare, i libri sono ordinati e non li sfoglio più. Ascolto, non si decifrano le parole ma i toni si distinguono bene. C’è questo ragazzo biondo e triste, ha un tono sommesso e un aspetto infelice, sembra rassegnato, mi fa tenerezza. La signora che l’ha preceduto un paio di volte nelle mie attese, lei rideva sonoramente, sembrava simpatica. La ragazza anoressica mi metteva tristezza, pareva arrabbiata.

Io sono astratta e non può vedermi nessuno.

Moltiplica per? venti? Sì, moltiplica pao per venti. Fanno quaranta telefonate in due mesi di confessioni di tentato suicidio, centosessanta ore di sedute, studio distrutto, silenzi dolorosi, risate isteriche, bugie, domande, resistenze, scenate, ricatti, recriminazioni.

Il dottore sposta la sedia alzandosi. Aprirà la prima porta, la seconda porta, mostrerà che non ha armi nella mano destra. Autodafé. L’Inquisizione è il mago di Oz con una faccia di pietra. La voce gli esce dalle spalle. Una specie di megafono metallico. L’ho capito che non vuole gli porti la mia analisi scritta ma io non riesco a parlare.

Quando porto i quadri invece è contento, porto i volti.

Mi piace questa atmosfera. Non mi era mai capitato di dialogare in questa dimensione.

Mi riprendo dopo un’ora o due.

Ho 28 anni.

Insisto nel non voler prendere i farmaci.

Ho 16 anni, e nascondo quello che scrivo perché anche quelle sono tutte bugie. Non posso sostenere che le mie poesie vengano lette in pubblico.

Ho 12 anni.

Le pareti e i pavimenti intonacati sono tinteggiati di bianco polveroso e sulle superfici i dislivelli sono eccessivi. La casa è del Settecento e non ha mai subito ristrutturazioni, il pavimento scricchiola a ogni passo ed è necessario muoversi con molta cautela, ho il terrore che crolli tutto. Lo schema delle stanze si ripete su almeno tre piani, l’ambiente è luminoso; è come se avessi visto quella casa molte altre volte ma in effetti non ne ho ricordo.

Una di quelle stanze è lo studio del dottore, lo incontriamo, si accorge della nostra presenza ma se ne va. Indossa un completo blu, giacca, camicia bianca senza cravatta; forse è di fretta, sembra indaffarato, forse ci evita, io credo che ci eviti, capisco che mi evita. Lo seguiamo. L’ambiente si oscura, il dottore si ferma di fronte a un acquario senza pesci colmo di acqua limpida ma non pulita ed è presente un’assistente. Non so se il dottore mi dica di mettere la testa nell’acqua, mi pare che mi consigli di guardare l’acqua trattenendo il respiro. Io obbedisco ma è violento e umiliante. Il dottore se ne va ed io trattengo il respiro finché ho fiato, sta ricreando la mia vita di frustrazione, mi fa altro male e non ho bisogno di questo, vorrei mi aiutasse senza causarmi ulteriore dolore.

Riavvolgiamo, torno indietro, mi sto recando nello studio del dottore per parlargli e dirgli quello che penso. In sala d’attesa l’arredamento è caldo e classico, ridondante. C’è una scala di legno, imponente, due rampe. Sto per percorrere l’ultima quando mi accorgo che ho la sigaretta in mano, non posso tornare indietro e gettarla in strada, sono in ritardo, senza pensare la butto nella tromba delle scale. Ho paura e scappo; torno ed è pieno di gente che spegne e guarda l’incendio, l’ho causato io e me ne vergogno e non lo posso dire. Il dottore è arrabbiato e spaventato, comunque distaccato, è seduto su uno scalino. Gli devo dire che sono stata io ma non posso farlo subito. Gli getto le braccia al collo, lo cerco davvero e mi metto a piangere disperata e angosciata.

Ho 16 anni.

Questa bestia che ho dentro in qualche modo deve uscire.

Ho 0 anni.

Perdo i denti. A volte anche i capelli. Mi smarrisco nei labirinti. Sono su una macchina che non so guidare e mi vado a schiantare. La folla. Cado col lettino dal ballatoio della nonna. Non sono in picchiata ma il letto si disfa progressivamente fino a quando l’unica protezione contro lo schianto è la mia impronta sul materasso. Polvere e cenere in turbini. Mi va malissimo il compito in classe di matematica che devo svolgere.

Ho 26 anni.

Ho molta paura. Giorni senza soluzione, senza fine. Come se il mondo fosse finito.

Ho 27 anni.

Mi sono buttata dalla finestra: tre mesi di carrozzella con le ossa fracassate, prova solo a immaginarti la rabbia di una che si vuole ammazzare e resta imprigionata su una carrozzella.

Ho 21 anni.

Un suono diverso da quello della pioggia sul lucernario, mi sono svegliata verso le tre e nevicava; la solita stanzetta buia, sgradevole, scarna. Due lettini. In uno dorme la ragazza bassa con i capelli neri, bruttina. Ce l’ho portata io e forse avrei dovuto fare sesso con lei. Lei se lo aspettava. Forse l’avevo convinta io. Ma non mi sento obbligata e non mi va, preferisco stare in piedi con l’uomo.

Ho 20 anni.

Consegno i regali di Natale a mia sorella: tre serpenti, non sono velenosi, diventeranno molto grossi, sono del tipo che per nutrirsi strangola la preda. Mia sorella scende le scale per andarsene e le cade il sacco con i serpenti. Io e lui osserviamo dal nostro pianerottolo quello sottostante. Mi spavento perché oltre ai tre serpenti si avvicina una grossa iguana. Ero certa che non fosse nel sacco, mi sarò sbagliata, distratta, non me ne sarò accorta.

Ho 13 anni.

La gente di cui mi fidavo mi ha tradita solo per idiozia.

Ho 26 anni.

Lui ha lavorato tutti questi mesi da casa e non mi ha mai persa d’occhio, forse l’amore è questo? Mi ascolta se gli parlo ma non chiede mai nulla, non mi chiede mai come sto, cosa penso.

Ho 18 anni.

“se questo è ancora il tuo indirizzo, so che almeno la curiosità ti sta facendo leggere. Ti capita mai di domandarti che fine ho fatto? ti ricordi di me? Ti scrivo solo due righe perché mi è capitata una cosa tra capo e collo e mi ha fatto capire che la lunga digestione del male che mi hai lasciato in ricordo dentro è finita.

C’è ancora qualcosa di nostro nella mia vita ma non è più doloroso; sta lì e tanto basta. E mentre scrivo mi sforzo ma non riesco proprio a immaginare come tu sia adesso. 

Mi sento me stesso quanto non l’ho mai sentito, e se non ti trovo nelle persone che ho incontrato, è perché non ho più il bisogno di cercarti.

Davvero non c’è dolore che non abbia fine, almeno questo di buono mi hai lasciato da imparare.

Paola, ti auguro tutta la felicità di cui sei capace…”

Ho 6 anni.

Seduta settima: lei non affronta la realtà per timore del fallimento.

Se pubblicano me, devono valere poco. Non ho una preparazione, sono ignorante, mi sento inferiore rispetto agli altri.

Non è che scappo dalla realtà per non subire fallimenti: scappo dalla realtà per non dover rinunciare ai miei desideri.

Seduta ottava: lei non sente sue le opere che scrive.


L’artigianato della grazia: un ricordo di Franco Battiato

È uno dei ricordi più piacevoli della mia – ma credo di poter dire: della nostra – avventura a Versodove. Franco Battiato era a Modena per un concerto, Alessandro di Prima, agevolato dalla sua catanesità, aveva fatto da apripista con Manlio Sgalambro, insomma il Maestro e il Filosofo avevano detto di sì alla nostra richiesta di una intervista.

Ci incontrammo in hotel, e mentre Sgalambro fissava Alessandro, Fabrizio Lombardo, Vincenzo Bagnoli e me con aria perplessa e un po’ torva, Battiato fu di una cortesia sorprendente, almeno per noi che non lo conoscevamo. Sorridente, curioso della nostra piccola impresa letteraria, aperto a discutere di qualsiasi cosa, addirittura premuroso. Più che una intervista fu una chiacchierata, piena di lampi interessanti, di ironia, di colpi di genio linguistici – «mi sento un manichino manicheo» – di piccole illuminazioni. E di dolcezza. La potete leggere qui sotto, oggi che il Maestro non c’è più e il rimpianto di non aver più potuto ascoltare, negli ultimi anni della malattia, la sua voce insieme mistica e disincantata, che non può permettersi di «perdere la lezione eterna e determinante datami magari da un fattorino mentre porta i bagagli», come ci disse provocando allegramente il severo ma in fondo divertito filosofo; la malinconia per la sua scomparsa si stempera un po’ nel ricordo ancora vivo, ancora emozionante di quel pomeriggio modenese.

Stefano Semeraro


In copertina: Franco Battiato, foto di Chiara Mirelli


È morto Marco Ribani – Versodove lo ricorda con un’intervista del 2000

Questo gramo febbraio ci ha tolto anche Marco Ribani, che con la sua scrittura è stato uno dei protagonisti degli ultimi decenni, e con i lunedì del Montesino (fra reading, tovagliette poetiche e le autoprodotte edizioni La volpe e l’uva) ha costruito uno dei più importanti centri propulsivi della poesia a Bologna negli anni Novanta.

Vogliamo ricordarlo con questa intervista del 2000 (con un ringraziamento a Lisa Neri):


Anticipazioni: Marco De Annuntiis

Da novembre Versodove sarà finalmente acquistabile in libreria. Per farci perdonare del ritardo, vi facciamo conoscere in anteprima alcuni degli autori presenti sul numero 21: cominciamo con Marco De Annuntiis, cantautore, poeta e polistrumentista, del quale troverete sulla rivista una poesia e il testo di una di una canzone.


Figura, di Fabio Orecchini

essere pendente | v e r t e n z a

astensione
dal respiro

*

contrarmi, sia pur deposto
re dei licheni un solco e
transeunte
torcendomi tra i rami
semplicemente di te non ho bisogno
mi dico mentre pigro, insolente
mi faccio sguardo
attraverso la finestra
e il fantasma della voce
temuta torna a sfavillare
la mia croce

*

se poi parliamo siamo ombre
di parole, o dentature
a calco, per masticazioni
brevi, non vere, Alcestina,
scadenti risa attonite
al trapianto dell’anima

*

poi tornare alle braci taciturne
sull’apice dei piedi e roteando
pretendere dai santi opachi
un peso una voce
nella gloria dei perdenti

*

l’orecchio insegue la Memoria tattile dei corpi
ostili, Alcesti di molte morti la smania di
estinguersi o furia

ti sia tregua, o figura, lo spazio del volto
che eccede lo spazio
le veci di un altro volto senza persona

*

si disse altro per non dire oltre:

*

La sua voce detenga detenuta | diurno il regno dell’ombra


Scannaciucce, di Domenico Brancale

Gùne com’a mmi
pènze di scì d’allà
gune com’a mmi
i’è ggià muorte

Uno come me
pensa di andare oltre
uno come me
è già morto

Non appene fàzze nu passe
’a vianove i’è nu bivie
ca rindròne nd’u cirvielle
e ngi scésse a derìtte
a sbatte mbacce u pale
ca tene ’mpugne ’a luce
ma po’ com’u ciucce
chiantàte nd’u ragghie
pure i ràgghie a llu curaggie ca non ténghe

Non appena faccio un passo
la strada è un bivio
che rintrona nel cervello
e ci andrei dritto
a sbattere contro il palo
che tiene in pugno la luce
ma poi come l’asino
impuntato nel raglio
pure io raglio al coraggio che mi manca

Mmiènz’o zanne nfraceràte
di chi i’è pacce a vvite
e si rusecàve o petre
ddret’u specchie

i’ère ’a voce cuntente
ca ng’ allambiscièie e i’ère
tutte na risate vacande

e no’ ng’ère eccó minné

Tra i denti infraciditi
di chi è matto a vita
e si rosicchia le pietre
dietro lo specchio

ero la voce felice
che luccica ed ero
tutto una risata di vuoto

e non c’era perché

Guna ndutte mmienz’a ssi parole
mburchiàte nd’ ’a terre
tène o segne d’u scannaciucce
mbàreche add’ ’a i’èsse picché
tén’ ’a monde di jaccà o pinziere
mbizz’a lenghe

Solo una fra queste parole
conficcate nella terra
ha i segni dell’agave
forse deve essere perché
ha la foia di tagliare i pensieri
sull’orlo della lingua

Mi ’ggià skattà ’a cape
mbacce a nu mure
ppi nu pinziere
c’avere i’èsse
vere e tagghiènte

Culle ca non pòte cchiù nniente.

Mi devo schiacciare la testa
contro il muro
con un pensiero
che deve essere
vero e tagliente

Quello che non può niente.


Anticipazioni n. 20: Intervista a Gabriele Frasca

“Alfabeta2” dedica il suo articolo domenicale a “Versodove”: seguendo il link potete leggere l’articolo e, in anteprima, l’intervista a Gabriele Frasca pubblicata sull’ultimo numero.

https://www.alfabeta2.it/2019/01/06/il-diritto-dellesecutore-intervista-a-gabriele-frasca/


Anticipazioni n. 20: Yanis Varufakis

Un’anteprima del numero 20, presto in tutte le librerie Coop: un estratto dall’intervista di Giorgia Karvunaki e Yanis Varufakis e Giorgio Maniotis!

Lei ha lodato l’antologia bilingue (inglese-greco) di Karen Van Dyck, Austerity Measures sulla poesia greca della “crisi”. Quali scrittori, poeti, greci o stranieri, segue in questo periodo?

Varufakis: Farò una confessione: nessuno. In questo periodo sono completamente assorbito da quello che sta succedendo in Europa e dall’economia politica. Ci sono nuovi partiti che stanno emergendo, tra cui uno in Grecia, e un altro in Italia. Dormo pochissimo. Mi manca, mi manca moltissimo la letteratura, il teatro. L’altro ieri sono riuscito ad andare a teatro. Ma sfortunatamente non succede di frequente. Rubo dei momenti per poter leggere letteratura e dal momento che non posso dedicare molto tempo alla lettura, torno a testi che ho letto già. Leggo anche in bagno (lo può scrivere). Accanto al mio letto c’è una libreria. Per distrarmi dai soliti impegni, in questo periodo leggo Shakespeare. Ho l’opera omnia in inglese. Leggo anche Sofocle. E sull’aereo, tra un volo e l’altro, tra il lavoro e il sonno, quel sonno che ti fa più stordire che riposare, ho letto di recente, e mi è piaciuto devo dire moltissimo, il libro di William Morris Notizie da nessun luogo. Il nessun luogo è l’utopia. […] Oltre all’Orestea trovo travolgente la trilogia di Edipo. Ho parlato prima di Sofocle, perché quello che suscita interesse particolare in me è che, mentre l’Orestea inizia con il sacrificio dei giovani, l’Edipo inizia con il potere assoluto della profezia e il continuo sforzo di evitarla. E più si sforzano per evitarla, più si trovano coinvolti, confermandola. È un’allegoria incredibile della crisi economica che stiamo vivendo. Più si cerca di sfuggire dalla crisi con le politiche che vengono applicate, più la crisi si rafforza. Ho scritto un capitolo in uno dei miei libri sulla storia dei memorandum, intitolato Shakespeare nel paese di Sofocle (in italiano: I deboli sono destinati a soffrire? L’Europa dell’austerità e la minaccia alla stabilità globale, La Nave di Teseo, 2018). Il motivo per cui mi riferisco a Shakespeare, riguarda la struttura della tragedia, che inizia dallo scalpore, dalla dissonanza, dal crimine, ovunque esso sia commesso. Nel caso di Amleto è il fantasma del padre che dice al figlio: “mi hanno assassinato figlio mio, fai qualcosa”. E tutto questo sfocia poi in armonia, perché dopo lo scontro c’è la catarsi. Non so se nella nostra realtà possiamo arrivare fino alla catarsi. Il più delle volte non ci arriviamo. Però, ne abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di continuare a credere nella possibilità della catarsi.

Il libro di Bertolt Brecht, intitolato Il romanzo dei Tui, denuncia gli intellettuali tedeschi che non hanno capito i segnali premonitori dell’ascesa del nazismo. L’opera di Brecht (scritta fra anni Trenta e Quaranta) trova riscontro nei nostri giorni, negli intellettuali odierni?

Varufakis: Assolutamente sì. In particolare in Grecia, dopo l’estate del 2015, dove si nota la sottomissione dell’intelligencija all’ordine costituito, al senso unico imposto: il dogma del T.I.N.A. (There Is No Alternative) di Margaret Thatcher. Si vede la piena umiliazione dei Tui nella Grecia odierna.

Siamo in tanti a credere che gli intellettuali non si mobilitino sufficientemente… o forse non gli viene data la possibilità di prendere posizione, di farsi sentire. È d’accordo, Maniotis?

Maniotis: Possono anche non farlo di propria volontà, di solito non gli viene data la possibilità.

V. Ha proprio ragione Giorgio Maniotis. La questione è rovente. Quale trasmissione televisiva avrebbe ospitato la nostra conversazione? Nemmeno le tv statali. Però, dovrei ammettere, che è un argomento che riguarda il singolo intellettuale, il singolo artista in generale. Dirò una cosa non piacevole, ma vera. Conosco moltissimi intellettuali, artisti, drammaturghi, non bravi come Giorgio, con cui sono in ottimi rapporti. In un paese però dove viene demonizzato chi osa dire di no a quello che sta succedendo, non avrebbero fatto un’intervista come questa, per non avere dei problemi lavorativi in futuro… Stiamo creando un nuovo partito qui in Grecia. Ho ricevuto varie telefonate da persone che mi hanno detto “vai avanti, è molto importante, noi però non possiamo prendere posizione perché potrebbe danneggiare la nostra carriera. Non ci chiameranno a partecipare a rappresentazioni teatrali, a concerti”.

Il dare e avere con il potere allora …

V. La paura piuttosto direi, non il dare e avere con il potere. La paura di essere esclusi dai doni sistemici.

M. Il teatro è ‘controllato’ ancora di più, essendo coinvolti più fattori, e avendo alle spalle le società di produzioni. Il libro è meno controllato.

V. Il libro viene controllato dalla legge del prezzo unico, il che significa che i libri non vengono venduti, perché due grandi librerie distruggono tutto il mercato.

…vengono tradotte molte cose. Ma il problema sta nella distribuzione.

V. Infatti. Non basta tradurre un libro. Le copie rimangono sugli scaffali di alcune librerie. È un problema in generale dell’editoria. Lo so in base alla mia attività editoriale, non solo in Grecia che ha un mercato quasi morto, ma anche all’estero.

Non è sufficiente firmare un buon contratto con un editore. L’editore deve avere un incentivo per promuovere il libro. Invece pubblicano molti libri che rimangono nei magazzini.


Sta per uscire il numero 20 di Versodove

SOMMARIO DEL NUMERO

Altrove

Intervista a Yanis Varufakis e Giorgio Maniotis: EDIPO NEL CAVEAU: LEGGO QUINDI LOTTO

In apertura

Intervista a Vittorio Lingiardi: POESIA E PSICOANALISI. MAPPE PER UN DIALOGO

Silvia Molesini, DA “NEL TUO OCCHIO NERO DORMIAMO”

Alessandro Guidi, IL PAESAGGIO DELL’INCONSCIO

In pratica Poesia

Paola Silvia Dolci, EADEM

Rodolfo Zucco, VECCHIA TALPA

Mariasole Ariot, BOSCHI, RAMI, TRONCHI, RADURE, FOGLIE

Alessandra Greco, ISTANTANEE. DA “TECHNIQUES D’IMMERSION”

Simone Maria Bonin, BESTIARIO ARTICO

Matteo Bianchi, DA “FORTISSIMO”

Luciano Mazziotta, DA “POSTI A SEDERE”

Odio l’estate di Vito Bonito

AUTOBIOCRAZIA

In/contro

Intervista a Gabriele Frasca: IL DIRITTO DELL’ESECUTORE

Intervista a Paolo Giovannetti: L’ESTETICA AZZERATA

Intervista a Alberto Bertoni: POETI, LEGGETEVI

In pratica Narrativa

Laura Liberale, OPERETTE MORTALI

Stefano Pierantoni, CAVATURACCIOLI

Emmanuel Iduma, DARE TESTIMONIANZA DI UN AMORE ORDINARIO

Licia Ambu, IL BATTERIO

Lorenzo Mari, LA FORMAZIONE DELLA CECOSLAVACCHIA A ITALIA ’90

Tradurre

Michael Palmer, AUTOBIOGRAFIE


Versodove a Passaggi Festival 2018

Si è appena concluso il festival Passaggi di Fano (27 giugno-1° luglio 2018); come in passato, Versodove ha curato nella suggestiva chiesa di San Francesco la rassegna “Passaggi diVersi” , articolata in tre eventi. Nella prima serata, giovedì 28, Tommaso Barsali (Valigie Rosse), Milena Magnani (Kurumuny) e Danilo Mandolini (Arcipelago Itaca) hanno animato un dibattito sull’editoria di poesia, alternandosi ai reading di Luigi Socci, Sergio Rotino e Franca Mancinelli, che ha anche presentato l’esperienza di Amos Edizioni. Venerdì e sabato è stata invece la volta di due importanti voci femminili del panorama poetico italiano: Vivian Lamarque e Rosaria Lo Russo. Sotto, alcune foto dei protagonisti delle serate realizzate dal fotografo Vito Panico (C) 2018

(Rosaria Lo Russo)

(Marilena Renda)

(Vito M. Bonito)

(Fabrizio Lombardo)

(l’eroico direttore e il suo fido scudiero)