Louise Glück

E’ morta a Cambridge, dove abitava, Louise Glück, la grande poetessa americana premio Nobel per la Letteratura nel 2020. “Versodove” aveva pubblicato sul numero 21 una serie di suoi testi tratti da Averno, di cui riproponiamo qui una scelta, nella traduzione di Marilena Renda, autrice anche di un approfondimento per “Rivista Studio” che trovate di seguito. Mitologia, religione, natura sono fra i suoi temi centrali, insieme a quelli della solitudine, della malattia e dell’abbandono, indagati a partire da una profonda rielaborazione del proprio vissuto. Louise Gluck, che si è spenta all’età di 80 anni, era nata a New York nel 1943 e aveva origini ebreo- ungheresi. Dodici le sue raccolte, alcune delle quali tradotte in Italia da IlSaggiatore, che le sono valse anche il premio Pulitzer nel 1993 (con Iris selvaggi) il Bollingen Prize for Poetry (2001), il Wallace Stevens Award (2008), il National Book Award (2014) e la National Humanities Medal, che le fu consegnata da Barak Obama nel 2015.

Averno

1.

Muori quando il tuo spirito muore.

Altrimenti, vivi.

Magari non stai facendo un buon lavoro, ma vai avanti –

qualcosa che non puoi decidere.

Quando lo dico ai miei figli

non mi danno retta.

I vecchi, pensano –

fanno sempre così:

parlano di cose che nessuno può vedere

per nascondere che stanno perdendo le cellule cerebrali.

Ammiccano l’uno all’altro;

ascolta quella vecchia, che parla dello spirito

perché non ricorda più come si dice sedia.

È terribile essere soli.

Non intendo vivere soli –

essere soli, quando nessuno ti ascolta.

Mi ricordo come si dice sedia.

Voglio dire – non mi interessa più.

Mi sveglio pensando

devi prepararti.

Presto lo spirito si arrenderà –

tutte le sedie del mondo non serviranno.

So cosa dicono quando esco dalla stanza.

Dovrei vedere qualcuno, dovrei prendere

una di quelle pillole nuove per la depressione.

Li sento bisbigliare, decidere come dividersi le spese.

E voglio gridare

State tutti vivendo in un sogno.

Brutto abbastanza, pensano, vedermi cadere a pezzi.

Brutto abbastanza senza la predica di questi giorni

come se non avessi diritto a questa nuova informazione.

Bene, loro hanno lo stesso diritto.

Stanno vivendo in un sogno, e mi preparo

a essere un fantasma. Voglio gridare

la nebbia se n’è andata

È come una nuova vita:

non ti interessa il risultato;

lo conosci.

Pensaci: sessant’anni seduti su delle sedie. E adesso lo spirito mortale

cerca così apertamente, così impavidamente

di sollevare il velo.

Per vedere a cosa stai dicendo addio.

Di cosa parlano le poesie di Louise Glück, di Marilena Renda

La prima volta che ho sentito parlare di Louise Glück è stato quando, casualmente, ho letto un paio di sue poesie su un blog. Leggo poco i blog, di solito distrattamente, ma la poesia, quando funziona veramente, ha il dono di rimanerti in testa. Le parole svaniscono insieme ai significati, ma lì dove si sono poggiate lasciano un’impronta, come quella della testa sul cuscino. Hanno un’altra importante caratteristica, le poesie che funzionano veramente: finita una, vuoi leggerne un’altra, e quando il libro è finito, vuoi leggere tutti i libri di quel poeta. Purtroppo, di Louise Glück, in commercio non c’era niente: in Italia i poeti stranieri vengono tradotti poco, perfino quelli, come Glück, che hanno vinto un Pulitzer e in patria sono considerati delle leggende che camminano.

Attualmente, di Glück troverete in commercio solo Averno, recentemente tradotto da Massimo Bacigalupo per Libreria Dante & Descartes, mentre il libro con cui ha vinto il Pulitzer nel 1993, L’iris selvatico, sempre tradotto da Bacigalupo e pubblicato da Giano, è ormai introvabile. Quindi, se da un lato mi dispero per le sorti della poesia non tradotta e mi dispiaccio per De Lillo, Pynchon e McCarthy che anche quest’anno l’Accademia di Svezia ha ignorato, dall’altro confido che l’editoria italiana si accorga di questa ex-oscura poeta newyorchese e le dia il destino editoriale che merita.

Nella motivazione del premio si citano la chiarezza, la severità e il desiderio di essere universale della poesia di Glück, con un ovvio riferimento a Emily Dickinson. In effetti, la poesia di Glück è oggettivamente severa, tesa com’è nello sforzo di raccontare l’io e la natura nella maniera più precisa possibile, senza sbavature. Nella sua opera non troverete nemmeno una parola fuori posto o superflua, solo un eccezionale senso della forma e un incredibile equilibrio compositivo. Da ex-anoressica, Glück tende alla perfezione, ma non per questo i suoi libri sono freddi o pretenziosi; non sono esperimenti a sangue freddo ma operazioni a cuore aperto in cui il chirurgo ha sapientemente occultato le tracce organiche.
In Averno troviamo spesso immagini dell’inverno. Si parla in effetti anche delle altre stagioni, perché Persefone, la protagonista del dramma, è figlia della dea della Terra e regola quindi l’avvicendarsi delle stagioni. È stata rapita da Ade; alcuni dicono vicino al lago Averno, poco lontano da Napoli, altri sulle rive del lago di Pergusa, vicino ad Enna. Nelle versioni che conosciamo del mito di Persefone il ruolo della fanciulla è poco chiaro; Glück la rappresenta come una ragazza che fatica a trovare il suo posto nel mondo e rischia di rimanere schiacciata da forze più grandi di lei. La voce poetica di Averno dice io, ma questo io potrebbe essere chiunque: Persefone, che non sa cosa desidera, Ade, che le costruisce una casa nel suo regno oscuro sperando che ci si trovi bene, il poeta, che desidera la vita ma sente che la morte è altrettanto vicina: «Una luce soffusa si alza sopra la distesa del prato, / dietro il letto. Egli la prende tra le braccia. / Vorrebbe dire ti amo, niente può farti del male // ma pensa / questa è una bugia, quindi alla fine dice / sei morta, niente può farti del male / che gli sembra / un inizio più promettente, più vero».
Il mito è materia dei poeti, ma è materia ostica; maneggiandolo male si finisce facilmente col fare una poesia di maniera, banale e poco sentita. Nel caso di Averno, invece, abbiamo due archetipi – la terra e Persefone – che sostengono un’architettura sapiente e potentissima. Persefone rappresenta, tra le altre cose, l’esperienza dell’incontro con l’altro, e specialmente l’esperienza amorosa, che è sempre un incontro al buio e un apprendimento del rischio. Nonostante il buio, Persefone, come il poeta, non si tira indietro, perché le esperienze del limite sono, in fondo, ciò di cui si nutre.
E poi c’è l’archetipo della terra, che è limite tra la terra e il cielo e terreno di battaglia tra uomini e uomini e tra uomini e dèi: nelle prime poesie di Averno si osserva il volo notturno degli uccelli migratori, si contempla il ritorno dell’inverno, del freddo che attanaglia di nuovo la terra, e le sue ferite ci ricordano quello che abbiamo perduto o sprecato. Ci ricordano anche che l’estate finisce sempre troppo presto, e che le tregue dalla morte sono sempre troppo brevi: «L’occhio si abitua alle sparizioni. / Non sarai risparmiata, né ciò che ami sarà risparmiato. // Un vento è venuto e passato, smontando la mente; / ha lasciato nella sua scia una strana lucidità. // Quanto sei privilegiata, ad aggrapparti ancora con passione / a ciò che ami; / la rinuncia alla speranza non ti ha distrutto. // Maestoso, doloroso: // Questa è la luce dell’autunno; si è volta su di noi. / Di certo è un privilegio avvicinarsi alla fine / credendo ancora in qualcosa». Niente, credo, è più universale di questo


Dal n. 20 di Versodove – Paola Silvia Dolci, Diario del sonno

è uscito da qualche settimana, per Le Lettere – con postfazione di Marco Giovenale – Il diario del sonno, di Paola Silvia Dolci, di cui anticipammo una parte nel numero 20 del 2018, all’interno di un’apertura dedicata a letteratura e psicanalisi.

Riportiamo qui i testi pubblicati sulla rivista e uno stralcio della postfazione.

«Il flusso verbale, segmentato e teso, giustamente incurante dei soprassalti del lettore, abbandona o allenta ogni idea di coerenza temporale. Lascia affiorare e disegnarsi – soprattutto nelle prime parti del libro – i ricordi come sogni, i sogni come ricordi, nei loro legami latenti o palesi con la sessualità e l’aggressività, senza – spesso – definire cosa è sogno e cosa memoria. Il promemoria all’analista diventa in questo modo un resto di buio, rispettato come tale: quel trapestio confuso e non regolabile che si produce sull’orlo dell’inconscio. (E che non è immediatamente possibile verbalizzare, mettere in [viva] voce, pena la sua scomparsa sotto la cortina dei sintomi).

Ogni volta la scena raccontata, l’episodio, il sogno, si propone come chiave o comunque esposizione significativa di un evento circoscritto, senza che la porta che dovrebbe spalancare si apra veramente. Un intelletto ostinatamente revisionista direbbe che questo è dovuto precisamente allo spazio che all’inconscio (al soggetto dell’inconscio) è concesso nella narrazione: …cosa ti aspetti? il soggetto sta mescolando tutte le carte, mentre solo l’ordine (cronologico! narrativo, connettivo=correttivo) porterebbe all’ordine (mentale, legale, sociale).

Secondo un ben noto meccanismo analizzato da Lacan già nei Nomi del padre, l’interrogato (revisionista, ripeto) tenderebbe così a sostituirsi all’interrogante, all’analista, preinterpretando.

Invece il soggetto (che, come ricordava Bene, è subjectum) sta giustamente impressionando lastre fotografiche, fibre di carta. Che lo impressionano, retroagendo, pure anticipandolo.

Di una fotografia si domanda “Qual è il soggetto?”. Qui allora è tutto spiegato, e chiuso nella noce del doppio se non triplo significato: soggetto come oggetto (pietra, rem) della (non)narrazione; soggetto come colei che senza voce ricapitola salta ricostruisce slega e annoda (in prosa tracciata, tracce impresse, non oralmente); e soggetto come energia che si libera. E che “impressiona” quella ennesima figura del gioco che è il lettore, infine».

Da Diario del sonno

Ho 7 anni.

Siamo nello studio. Luci puntate e buio.

Con forza e fermezza il dottore mi strappa entrambi i lobi nei quali ho due grandi orecchini a cerchio. Mi scuoto, me ne andrei. Il dottore mi afferra gli avambracci e me li blocca sulla scrivania. Non posso muovermi. Senza fiato, ho paura.

Ho 21 anni.

Mi commuovo quando hanno un orgasmo dentro di me. (Rapporti nel periodo mestruale).

Ho 15 anni.

Io non sto bene e mi devo proteggere.

Ieri volevano trattenermi ancora in psichiatria.

T’informo non per spaventarti ma per farti capire che la situazione per me è grave.

Le frasi che ripeti con maggior frequenza sono “Esisto anch’io”, “Anch’io ho i miei limiti”, così se commetti errori tu sono giustificati e se sbagliano gli altri, noi siamo malvagi.

Ti aspettavi sorrisi e abbracci al tuo ritorno, sbagliavi. Non condivido quello che è stato il tuo comportamento.

Sono due anni che tra alti e bassi cerco di farmi perdonare, cosa poi? Scegliere di avere una vita mia?

Ho 28 anni.

Dottore,

Lei mi ha detto che le emozioni sarebbero affiorate nella misura in cui io fossi stata di grado di tollerarle, di guardare ai fatti e di ascoltarmi. Ho eseguito.

Mi ha chiesto con quali sentimenti ho accolto certe informazioni. Io mi sono chiesta come ne fossi giunta in possesso.

Dov’è il limite? Sono cattiva perché sento male? Sto sbagliando? Perché anche se è malata mi odia? E se la preghiamo in ginocchio di starmi lontana non si ferma davanti a niente come quando cercavo di scappare e chiudermi in una stanza e pur di raggiungermi si spaccava le mani?

I maltrattamenti sono sempre stati quotidiani. O forse io sono sempre stata troppo debole.

Perché vorrei comunque proteggerla se la voglio uccidere?

In quale modo tutto questo è legato al mio suicidio?

Per quanto riguarda i farmaci, per ora ho bisogno di restare lucida.

Ho 27 anni.

“Io ho visto in te la disperazione e la stupidità in tua madre. Su quel balcone tua madre era sorpresa e idiota, credo che si sia costruita un castello per non darsi colpe e quando ti ha vista le è venuto il dubbio che tu non fingessi.

Non mi spiego perché sia rimasta sul balcone e non sia scesa, il mio istinto di scendere e abbracciarti sarebbe stato più forte di qualsiasi cosa. Quando siamo tornati e mi sono presentato al portone di casa nostra per parlarle mi ha detto che tu avevi bisogno di lei e che quindi sarebbe salita. Sono una madre. È il dolore di una madre. Le ho detto di aspettare alla porta per venire a parlarti. Le ho riportato che tu non eri in grado di comunicare e lei ha ribadito che non importava se tu non ne eri in grado ma bisognava si facesse comunque. Le ho detto che forse più tardi o il giorno successivo ma questo non era il momento e ha ribadito che non importava e che andava fatto adesso, subito.

Quando ti ho afferrata mentre ti stavi buttando nella tromba delle scale le ho detto di andarsene e non l’ha fatto. Le ho detto che se restava avresti tentato di suicidarti e lei ha risposto che se fosse andata via avresti continuato comunque. Non vuole capire. Il fatto che la sua presenza ti portasse al suicidio non la frenava, anzi, voleva venirti ancora più vicino a strillarti le sue verità. Era più importante il suo parlarti che il fatto che tu vivessi. Significativo che dica uccidi me e invece non voglia leggere, ascoltare, capire e sentire dolore. Sa che non la ucciderai e vuole solo il martirio nelle idee ma non nei fatti. È convinta di sapere quello che è giusto per te e di importelo fino alla tua morte.

Posso dire con certezza che è pericolosissima e non è in grado di capire la gravità della situazione nemmeno vedendola con i propri occhi.

Continuano ad attribuire la responsabilità della situazione a entrambi noi, quando io riferisco loro solo quello che mi dici tu. Non è giusto.

Sono io che ti trattengo quando ti butti giù dalle scale, non tua madre, lei ti istiga.”

Ho 27 anni.

All’ingresso di via Ala Ponzone mi prende la paura, battito accelerato, bocca secca, mani e gambe che tremano. Se non mi accompagnasse qualcuno non entrerei.

Suono. Apre. Entro. Tolgo il cappotto, i guanti, gli occhiali da sole, mi siedo. Guardo Charcot e gli istogrammi degli internati nel manicomio di Cremona, humour noir, il dottore ce l’ha coi pazienti. Non posso fumare, i libri sono ordinati e non li sfoglio più. Ascolto, non si decifrano le parole ma i toni si distinguono bene. C’è questo ragazzo biondo e triste, ha un tono sommesso e un aspetto infelice, sembra rassegnato, mi fa tenerezza. La signora che l’ha preceduto un paio di volte nelle mie attese, lei rideva sonoramente, sembrava simpatica. La ragazza anoressica mi metteva tristezza, pareva arrabbiata.

Io sono astratta e non può vedermi nessuno.

Moltiplica per? venti? Sì, moltiplica pao per venti. Fanno quaranta telefonate in due mesi di confessioni di tentato suicidio, centosessanta ore di sedute, studio distrutto, silenzi dolorosi, risate isteriche, bugie, domande, resistenze, scenate, ricatti, recriminazioni.

Il dottore sposta la sedia alzandosi. Aprirà la prima porta, la seconda porta, mostrerà che non ha armi nella mano destra. Autodafé. L’Inquisizione è il mago di Oz con una faccia di pietra. La voce gli esce dalle spalle. Una specie di megafono metallico. L’ho capito che non vuole gli porti la mia analisi scritta ma io non riesco a parlare.

Quando porto i quadri invece è contento, porto i volti.

Mi piace questa atmosfera. Non mi era mai capitato di dialogare in questa dimensione.

Mi riprendo dopo un’ora o due.

Ho 28 anni.

Insisto nel non voler prendere i farmaci.

Ho 16 anni, e nascondo quello che scrivo perché anche quelle sono tutte bugie. Non posso sostenere che le mie poesie vengano lette in pubblico.

Ho 12 anni.

Le pareti e i pavimenti intonacati sono tinteggiati di bianco polveroso e sulle superfici i dislivelli sono eccessivi. La casa è del Settecento e non ha mai subito ristrutturazioni, il pavimento scricchiola a ogni passo ed è necessario muoversi con molta cautela, ho il terrore che crolli tutto. Lo schema delle stanze si ripete su almeno tre piani, l’ambiente è luminoso; è come se avessi visto quella casa molte altre volte ma in effetti non ne ho ricordo.

Una di quelle stanze è lo studio del dottore, lo incontriamo, si accorge della nostra presenza ma se ne va. Indossa un completo blu, giacca, camicia bianca senza cravatta; forse è di fretta, sembra indaffarato, forse ci evita, io credo che ci eviti, capisco che mi evita. Lo seguiamo. L’ambiente si oscura, il dottore si ferma di fronte a un acquario senza pesci colmo di acqua limpida ma non pulita ed è presente un’assistente. Non so se il dottore mi dica di mettere la testa nell’acqua, mi pare che mi consigli di guardare l’acqua trattenendo il respiro. Io obbedisco ma è violento e umiliante. Il dottore se ne va ed io trattengo il respiro finché ho fiato, sta ricreando la mia vita di frustrazione, mi fa altro male e non ho bisogno di questo, vorrei mi aiutasse senza causarmi ulteriore dolore.

Riavvolgiamo, torno indietro, mi sto recando nello studio del dottore per parlargli e dirgli quello che penso. In sala d’attesa l’arredamento è caldo e classico, ridondante. C’è una scala di legno, imponente, due rampe. Sto per percorrere l’ultima quando mi accorgo che ho la sigaretta in mano, non posso tornare indietro e gettarla in strada, sono in ritardo, senza pensare la butto nella tromba delle scale. Ho paura e scappo; torno ed è pieno di gente che spegne e guarda l’incendio, l’ho causato io e me ne vergogno e non lo posso dire. Il dottore è arrabbiato e spaventato, comunque distaccato, è seduto su uno scalino. Gli devo dire che sono stata io ma non posso farlo subito. Gli getto le braccia al collo, lo cerco davvero e mi metto a piangere disperata e angosciata.

Ho 16 anni.

Questa bestia che ho dentro in qualche modo deve uscire.

Ho 0 anni.

Perdo i denti. A volte anche i capelli. Mi smarrisco nei labirinti. Sono su una macchina che non so guidare e mi vado a schiantare. La folla. Cado col lettino dal ballatoio della nonna. Non sono in picchiata ma il letto si disfa progressivamente fino a quando l’unica protezione contro lo schianto è la mia impronta sul materasso. Polvere e cenere in turbini. Mi va malissimo il compito in classe di matematica che devo svolgere.

Ho 26 anni.

Ho molta paura. Giorni senza soluzione, senza fine. Come se il mondo fosse finito.

Ho 27 anni.

Mi sono buttata dalla finestra: tre mesi di carrozzella con le ossa fracassate, prova solo a immaginarti la rabbia di una che si vuole ammazzare e resta imprigionata su una carrozzella.

Ho 21 anni.

Un suono diverso da quello della pioggia sul lucernario, mi sono svegliata verso le tre e nevicava; la solita stanzetta buia, sgradevole, scarna. Due lettini. In uno dorme la ragazza bassa con i capelli neri, bruttina. Ce l’ho portata io e forse avrei dovuto fare sesso con lei. Lei se lo aspettava. Forse l’avevo convinta io. Ma non mi sento obbligata e non mi va, preferisco stare in piedi con l’uomo.

Ho 20 anni.

Consegno i regali di Natale a mia sorella: tre serpenti, non sono velenosi, diventeranno molto grossi, sono del tipo che per nutrirsi strangola la preda. Mia sorella scende le scale per andarsene e le cade il sacco con i serpenti. Io e lui osserviamo dal nostro pianerottolo quello sottostante. Mi spavento perché oltre ai tre serpenti si avvicina una grossa iguana. Ero certa che non fosse nel sacco, mi sarò sbagliata, distratta, non me ne sarò accorta.

Ho 13 anni.

La gente di cui mi fidavo mi ha tradita solo per idiozia.

Ho 26 anni.

Lui ha lavorato tutti questi mesi da casa e non mi ha mai persa d’occhio, forse l’amore è questo? Mi ascolta se gli parlo ma non chiede mai nulla, non mi chiede mai come sto, cosa penso.

Ho 18 anni.

“se questo è ancora il tuo indirizzo, so che almeno la curiosità ti sta facendo leggere. Ti capita mai di domandarti che fine ho fatto? ti ricordi di me? Ti scrivo solo due righe perché mi è capitata una cosa tra capo e collo e mi ha fatto capire che la lunga digestione del male che mi hai lasciato in ricordo dentro è finita.

C’è ancora qualcosa di nostro nella mia vita ma non è più doloroso; sta lì e tanto basta. E mentre scrivo mi sforzo ma non riesco proprio a immaginare come tu sia adesso. 

Mi sento me stesso quanto non l’ho mai sentito, e se non ti trovo nelle persone che ho incontrato, è perché non ho più il bisogno di cercarti.

Davvero non c’è dolore che non abbia fine, almeno questo di buono mi hai lasciato da imparare.

Paola, ti auguro tutta la felicità di cui sei capace…”

Ho 6 anni.

Seduta settima: lei non affronta la realtà per timore del fallimento.

Se pubblicano me, devono valere poco. Non ho una preparazione, sono ignorante, mi sento inferiore rispetto agli altri.

Non è che scappo dalla realtà per non subire fallimenti: scappo dalla realtà per non dover rinunciare ai miei desideri.

Seduta ottava: lei non sente sue le opere che scrive.


L’artigianato della grazia: un ricordo di Franco Battiato

È uno dei ricordi più piacevoli della mia – ma credo di poter dire: della nostra – avventura a Versodove. Franco Battiato era a Modena per un concerto, Alessandro di Prima, agevolato dalla sua catanesità, aveva fatto da apripista con Manlio Sgalambro, insomma il Maestro e il Filosofo avevano detto di sì alla nostra richiesta di una intervista.

Ci incontrammo in hotel, e mentre Sgalambro fissava Alessandro, Fabrizio Lombardo, Vincenzo Bagnoli e me con aria perplessa e un po’ torva, Battiato fu di una cortesia sorprendente, almeno per noi che non lo conoscevamo. Sorridente, curioso della nostra piccola impresa letteraria, aperto a discutere di qualsiasi cosa, addirittura premuroso. Più che una intervista fu una chiacchierata, piena di lampi interessanti, di ironia, di colpi di genio linguistici – «mi sento un manichino manicheo» – di piccole illuminazioni. E di dolcezza. La potete leggere qui sotto, oggi che il Maestro non c’è più e il rimpianto di non aver più potuto ascoltare, negli ultimi anni della malattia, la sua voce insieme mistica e disincantata, che non può permettersi di «perdere la lezione eterna e determinante datami magari da un fattorino mentre porta i bagagli», come ci disse provocando allegramente il severo ma in fondo divertito filosofo; la malinconia per la sua scomparsa si stempera un po’ nel ricordo ancora vivo, ancora emozionante di quel pomeriggio modenese.

Stefano Semeraro


In copertina: Franco Battiato, foto di Chiara Mirelli


È morto Marco Ribani – Versodove lo ricorda con un’intervista del 2000

Questo gramo febbraio ci ha tolto anche Marco Ribani, che con la sua scrittura è stato uno dei protagonisti degli ultimi decenni, e con i lunedì del Montesino (fra reading, tovagliette poetiche e le autoprodotte edizioni La volpe e l’uva) ha costruito uno dei più importanti centri propulsivi della poesia a Bologna negli anni Novanta.

Vogliamo ricordarlo con questa intervista del 2000 (con un ringraziamento a Lisa Neri):


È morto Lawrence Ferlinghetti – Versodove lo ricorda con un’intervista del 1995

«Il ruolo del poeta è ancora “messaggero degli eroi”, capisci, uno spirito libero cercatore di amore e libertà»: ci lascia – a 101 anni – Lawrence Ferlinghetti, poeta, pittore, traduttore, testimone dell’epopea beatnik e della grande generazione di poeti e narratori che rivoluzionò la letteratura americana degli anni ’50. Versodove lo ricorda affettuosamente con una breve intervista rilasciata dal poeta nel 1995:


Le ultime uscite di Prova d’artista/Galerie Bordas

Versodove è felice di segnalare le ultime bellissime uscite di Prova d’artista/Galerie Bordas, curata da Domenico Brancale:

René Daumal, La Seta. Testo del 1925 (Traduzione di Bruno di Biase)


*
Franck Venaille, Tre fasi di uno stato di costrizione (Traduzione di Bruno di Biase)


*
Paul Celan – Erich Einhorn, Tu sai cosa sono le pietre… Corrispondenza. Traduzione di Anna Ruchat, con uno scritto di Domenico Brancale. Immagini di Sophie Ko


*
Georges Perros – Luca Mengoni, Impossibile essere felici di esserlo, a cura di Mauro Leone. Immagini di Luca Mengoni


*
Stefan Hyner, I diari perduti di Romy Schneider (inedito). Una fotografia di Romy Schneider. Traduzione di Anna Ruchat

Prova d’artista/Galerie Bordas è a San Marco 1994/BI-30124 Venezia.

Tel : (+39) 0415224812galeriebordas@yahoo.it

http://www.galerie-bordas.com/prova-d-artista-edizioni.php

Immagine in evidenza di Sophie Ko.


Con puntuale ritardo e incredibile coerenza: una nota sulle poesie di Rodolfo Quadrelli

Con puntuale ritardo e incredibile coerenza.

Recensioni, note, appunti.
Brevi più o meno, in affanno, come sempre per «Versodove» in cui tutto si costruisce col rigore millimetrico di essere qui con “incredibile coerenza”, ma sempre “in ritardo”, dislocati innanzitutto rispetto a se stessi.
Ci proviamo a leggere, non solo in privato, ma rendendo conto in chiaro di quanto sopraggiunge nelle nostre mani di libri d’ogni fatta a cui vorremmo dare uno spazio seppur esile di risonanza. Un terzo tempo di incontro, di dialogo che resti segnato, detto trascritto. E nello stesso tempo un saluto, un congedo, un augurio.

La redazione


Sospese tra descrizione e visione, tra meditazione e dialogo, tra dettaglio quotidiano e apertura metafisica, le poesie di Quadrelli risentono del magistero di poeti quali Manzoni e Rebora e sono riconducibili al realismo proprio della “linea lombarda”. Tale ascendenza letteraria è riscontrabile anche nella breve prosa La mia Milano (1979), che chiude il volume quale ideale suggello della parabola poetica dell’autore: un omaggio lucido e appassionato alla Milano degli orti di periferia e delle case di ringhiera, espressione di una Milano popolare sopravvissuta al miracolo economico che Quadrelli ritrae e trasfigura poeticamente come lo scenario di una felicità possibile.

 

 

DORSO QUADRELLI

 

Speranza

 

Fronte premi, occhi chiudi, mente spremi,

bocca tremi, spazio escludi, ciglia vibri,

petto s’alzi, cuore batta, anima libri,

ma solo l’anima, perché il resto resta

a vagare quaggiù, se altrove è festa.

 

Il tuo ritratto all’età di trent’anni

o di venti, (se memoria ed inganni,

non si scambino il ruolo consueto

e l’una agli altri tolga ogni divieto)

il tuo ritratto è questo nella mera

speranza, maledetta nella sera

quando si fanno i conti che non tornano

e i fantasmi in te scendono e soggiornano.

 

Ma altrove è qui: qui dove senza festa

si chiude la bufera, la tua richiesta

si fa più vera.

 

 

Questa regione dove non si dà

 

Questa regione dove non si dà

segreto per ognuno a ottenere

ma si concede intero per avere

senza segreti quel che non si ha,

 

questa regione aperta dove sa

soltanto chi sa di non sapere

e che al deserto di quaggiù non fa

piovere manna ma speranze altere,

 

non è qui, non è lì, ma nelle sfere

alte e vicine dove le severe

madri che i figli guardano

e trepide condannano

hanno volto celeste e mani nere,

 

questa regione a te, senza vedere

dove tu vai attento a non cadere

ti è davanti, e distanti

sono le tenebre dove stan le fiere.

 

Avanti tu ti volti e indietro guardi:

il mondo è capovolto

ma tu sei nuovo e sciolto

senza ritardi.

 

 

Immagine in evidenza tratta da: https://www.ilgiornale.it/

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Con puntuale ritardo e incredibile coerenza – su Le Meteore: collana di poesia
 diretta da Domenico Brancale e Anna Ruchat

Con puntuale ritardo e incredibile coerenza.

Recensioni, note, appunti.
Brevi più o meno, in affanno, come sempre per «Versodove» in cui tutto si costruisce col rigore millimetrico di essere qui con “incredibile coerenza”, ma sempre “in ritardo”, dislocati innanzitutto rispetto a se stessi.
Ci proviamo a leggere, non solo in privato, ma rendendo conto in chiaro di quanto sopraggiunge nelle nostre mani di libri d’ogni fatta a cui vorremmo dare uno spazio seppur esile di risonanza. Un terzo tempo di incontro, di dialogo che resti segnato, detto trascritto. E nello stesso tempo un saluto, un congedo, un augurio.

La redazione


Le Meteore

collana di poesia
 diretta da Domenico Brancale e Anna Ruchat

La casa editrice Ibis accoglie la collana Le Meteore, ospitata fin qui dalle edizioni effigie.

Come meteore le parole della poesia entrando all’interno dell’atmosfera umana s’incendiano per un tempo breve, destinato a dilatarsi lentamente. Stella cadente che accende la luce della coscienza, la poesia si spinge e ci spinge oltre i muri della paura che tutti innalziamo, nella ricerca dell’altro. Questa collana di meteore, si propone di far scendere nella nostra atmosfera esperienze poetiche lontane nel tempo o nello spazio, di ridar loro luce, pur nel breve tempo della caduta.

Caratteristica della collana è lo sguardo rivolto al di fuori dei confini italiani. Si pubblicano raccolte (non antologie) di autori stranieri, viventi e non, che non siano ancora o non siano da tempo presenti sul mercato italiano. Le traduzioni vengono “regalate” alla collana dai traduttori che propongono di volta in volta i libri e se ne fanno carico.

I primi quattro titoli sono: Poesie scelte da Thomas Bernhard di Christine Lavant (traduzione di Anna Ruchat), Le nature indivisibili di Claude Royet-Journoud, (traduzione di Domenico Brancale), Finché arrivano lettere d’amore di Helga Novak (traduzione di Paola Quadrelli), All’asinello sordo di Donaldas Kajokas (traduzione di Davide Ferrari e Romualdas Rakauskas).

I primi due libri della collana Meteore hanno visto la luce grazie al Premio Arno Geiger per la traduzione poetica 2015.

Di prossima uscita: Spring and All di William Carlos Williams (traduzione di Tommaso Di Dio), Herz als Trumpf di Stefan Hyner (traduzione di Anna Ruchat), Verschenkter Rat di Ilse Aichinger (traduzione di Giusi Drago), The reproduction of profiles di Rosmarie Waldrope (traduzione di Maristella Bonomo).


hyner cuore

 

Da Cuore vincePoesie 2006-2015 di Stefan Hyner, a cura di Anna Ruchat, collana “Le Meteore” per FinisTerrae di Ibis, 2020

Per tutta la notte il vento

scuote le finestre

soffia strani sogni

davanti al mio occhio interiore

 

Mi rifiuto di diventare adulto, di tornare

in questo mondo di successo e ricchezza, cambio

il mio nome e

e ricomincio a cavalcare il vento

 

7/IV/15

 

Die ganze Nacht rüttelt

der Wind an den Fenstern

bläst seltsame Träume

vor mein inneres Auge

 

Ich weigere mich erwachsen zu werden, in die Welt

aus Ruhm und Reichtum einzukehren, ich ändere

meinen Namen und

reite diesen Wind aufs Neue

 

7/IV/15

 


9788869040085

Da La primavera e tutto il resto di William Carlos Williams, a cura di Tommaso Di Dio, collana “Le Meteore” per FinisTerrae di Ibis, 2020

 

XVI.

 

O lingua

che lecchi

la piaga che sopra è

il labbro inferiore di lei

 

O ventre rovesciato

 

O appassionato cotone

appiccicato ai

capelli ingarbugliati

 

elisia bava

dalla bocca di lei

sopra

il fazzoletto ripiegato

 

io non posso morire

 

– lamentò la vecchia

donna itterica

rovesciando i suoi globi

di croco

 

io non posso morire

io non posso morire

 

 

XVI

 

O tongue

licking

the sore on

her netherlip

 

O toppled belly

 

= passionate cotton

stuck with

matted hair

 

 

elysian slobber

from her mouth

upon

the folded handkerchief

 

I can’t die

 

– moaned the old

jaundiced woman

rolling her

saffron eyeballs

 

I can’t die

I can’t die

 

 


Con puntuale ritardo e incredibile coerenza: tra letteratura e architettura. una nota di Antonio Alberto Clemente – Sequenza 2

Con puntuale ritardo e incredibile coerenza.

Recensioni, note, appunti.
Brevi più o meno, in affanno, come sempre per «Versodove» in cui tutto si costruisce col rigore millimetrico di essere qui con “incredibile coerenza”, ma sempre “in ritardo”, dislocati innanzitutto rispetto a se stessi.
Ci proviamo a leggere, non solo in privato, ma rendendo conto in chiaro di quanto sopraggiunge nelle nostre mani di libri d’ogni fatta a cui vorremmo dare uno spazio seppur esile di risonanza. Un terzo tempo di incontro, di dialogo che resti segnato, detto trascritto. E nello stesso tempo un saluto, un congedo, un augurio.

La redazione


Tra letteratura e architettura

Sequenza_2 Paesaggi

Era il 1913 quando Georg Simmel disse: «per il paesaggio è assolutamente essenziale la delimitazione, l’essere compreso in un orizzonte momentaneo o durevole; la sua base materiale o le sue singole parti possono avere semplicemente il valore di natura ma, rappresentate come “paesaggio”, richiedono un essere-per-sé che può essere ottico, estetico, legato a uno stato d’animo, reclamano un rilievo individuale e caratteristico, rispetto a quell’unità indissolubile della natura». Lampi di pensiero di straordinaria attualità all’interno dei quali Il paesaggio è, contemporaneamente, un Diario dello sguardo, un Atlante delle emozioni, un’Estetica della natura. È la conferma che L’occhio di Calvino aveva ragione a identificare il tempo come il presupposto essenziale per qualsiasi Ipotesi di descrizione del paesaggio. Ed è, infine, lo scenario in cui è solo Staccando l’ombra da terra che si può calcolare la giusta distanza affinché La fotografia sia una presa di coscienza e non soltanto una mera registrazione della realtà.

Troppo spesso tutto questo viene dimenticato. E lo spazio tra Convenzione europea del paesaggio e governo del territorio rimane uno spazio esclusivamente giuridico. Senza aprirsi a una comprensione più profonda della Storia del paesaggio agrario italiano, ad approfondire La conoscenza del territorio, a inserire Paesaggi luoghi città in una prospettiva di più ampio respiro culturale. E progettuale.

Il disegno del paesaggio italiano è, infatti, la testimonianza di un’attesa che pare aver esaurito tutte le aspettative possibili. Luoghi e paesaggi sono spazi delle potenzialità inespresse che difficilmente riusciranno a trasformarsi in progetto di territorio. L’atto di vedere è in difficoltà nel convertire i Significati del confine in attraversamenti. E il Manifesto del terzo paesaggio fatica a diventare prassi operativa ordinaria: il suo invito a osservare la realtà, sia per quello che è rimasto sia per ciò che non è più, rimane più la constatazione di uno stato di decomposizione senza morte che non l’incipit per dare avvio a un’azione concreta di rigenerazione territoriale.

Probabilmente, Vivere di paesaggio è Il libro dell’inquietudine che ogni architetto porta dentro di sé, sapendo che Il sogno di disegnare il mondo è solo un’utopia. Forse l’ultima.

 

Compagni di viaggio:

Georg Simmel, Saggi sul paesaggio, Armando Editore, 2006.

Juhani Pallasmaa, Lampi di pensiero, Pendragon, Bologna 2011.

Maurizio Vitta, Il paesaggio, Einaudi, Torino 2005.

Michael Jakob, Il paesaggio, il Mulino, Bologna 2009.

Bernard Noel, Diario dello sguardo, Guerini e Associati, 1992 (1988).

Giuliana Bruno, Atlante delle emozioni, Bruno Mondadori, Milano 2006.

Paolo D’Angelo, Estetica della natura, Laterza, Bari-Roma 2001.

Marco Belpoliti, L’occhio di Calvino, Einaudi, Torino 1996.

Italo Calvino, Ipotesi di descrizione di un paesaggio, in Id., Saggi (1945-1985) Volume II, Mondadori, Milano 1995.

Daniele Del Giudice, Staccando l’ombra da terra, Einaudi, Torino 1994.

Ugo Mulas, La fotografia, Einaudi, Torino 2007.

Gian Franco Cartei (a cura di), Convenzione europea del paesaggio e governo del territorio, il Mulino, Bologna 2007.

Emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari 1986 (1961).

Eugenio Turri, La conoscenza del territorio, Marsilio, Venezia 2002.

Paolo Federico Colusso, Wim Wenders: paesaggi, luoghi, città, Testo & Immagine, Torino 1998.

Il disegno del paesaggio, Casabella 575/576 (Numero Monografico), Gennaio-Febbraio 1991.

Andrea Zanzotto, Luoghi e paesaggi, Bompiani, Milano 2013.

Wim Wenders, L’atto di vedere, Ubulibri, Roma 2002 (1994).

Piero Zanini, Significati del confine, Bruno Mondadori, Milano 1997.

Gilles Clément, Manifesto del Terzo paesaggio, Quaolibet, Macerata 2005.

Françoise Julien, Vivere di paesaggio, Mimesis, Milano-Udine 2017.

Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine, Feltrinelli, Milano 1982.

James Cowan, Il sogno di disegnare il mondo, Rizzoli, Milano 1998.

 

di Antonio Alberto Clemente

 

 

Immagine in evidenza tratta dalla copertina di Il paesaggio, Michael Jakob, il Mulino, Bologna 2009.


Celan. Anniversari – di Anna Ruchat

«Il luogo della poesia è un luogo umano, “un luogo nell’universo”, certo, ma che si trova quaggiù, nel tempo.» Scriveva Paul Celan in un saggio radiofonico del 1960 dedicato a uno dei poeti da lui più amati, Osip Mandel’stam.

Il grande balzo in avanti della critica tedesca nel doppio anniversario – nato a Czernowitz, (città asburgica fino al 1918, poi rumena, poi sovietica, oggi ucraina), il 23 novembre 1920, Celan morì suicida a Parigi alla fine di aprile del 1970 –, consiste proprio nel restituire alla poesia di Celan il rapporto con la storia, ora conosciuto nel dettaglio, che la rende tanto più potente.

Figlio unico di genitori ebrei (la madre di lingua tedesca, il padre rumena) Paul Antschel (Ancel in rumeno, poi anagrammato a Parigi in Celan) frequentò scuole ebraiche, tedesche e rumene fino alla maturità, in un ambiente estremamente vivace da un punto di vista sia linguistico che intellettuale. Le sue prime poesie, più convenzionali, risalgono al 1938, anno in cui, per evitare le leggi antiebraiche s’iscrisse alla facoltà di medicina di Tours, da dove rientrò prima dello scoppio della guerra. Nel 1939 s’iscrisse alla facoltà di lettere rumena e poi russa (1940-41) di Czernowitz. Nel 1942 poco dopo l’occupazione tedesca i genitori furono deportati nel campo di Michailovka dove il padre morì di tifo e la madre fu uccisa. Paul Antschel, per sfuggire alle deportazioni trascorse 2 anni (1942-44) nel campo di lavoro di Fälticeni (Romania).

A Cernowitz nel 1944 quando Celan, riprese gli studi, la poesia era qualcosa di vivo, scrive Wolfgang Emmerich in una sorta di biografia – la sola uscita per l’anniversario – in cui tutta la vita di Celan viene ripercorsa nel segno del rapporto con la Germania, con i tedeschi e soprattutto con la lingua tedesca Nahe Fremde, Paul Celan und die Deutschen (Vicina estraneità, Paul Celan e i tedeschi,  Wallstein, pp. 400, 26 €). Negli incontri serali tra giovani poeti e amici di origine ebraica, racconta Emmerich, si parlava, si commentavano i primi resoconti giornalistici sullo sterminio e sui campi, si leggevano versi, s’improvvisava, in lingua tedesca. È in questo contesto che nasce la poesia Fuga di morte alla cui genesi è dedicato un libro di Thomas Sparr ricco di documentazione anche inedita Todesfuge  Biographie eines Gedichts, (Fuga di morte, biografia di una poesia, DVA Verlag, pp. 350, 22 €).

Questa esperienza primaria del fare poesia si riverbera poi su tutta l’opera. «Forse», scrive sempre Wolfgang Emmerich «non c’è – a parte i giochi di parole dell’epoca di Budapest e le poche poesie per bambini – una sola poesia di questo autore in cui non sia presente un ricordo, anche mediato, dello sterminio degli ebrei.» Già nel 1998, occorre ricordarlo, Giuseppe Bevilacqua, nel saggio introduttivo al Meridiano Mondadori, Eros–Nostos–Thanatos, affrontava coraggiosamente, pur non avendo ancora a disposizione gli straordinari materiali che vengono pubblicati ora, un discorso «globale» su Celan in chiave storica. Un discorso che poteva allora apparire banale solo a chi non conosceva l’ambito in cui si muoveva la critica celaniana sia francese che tedesca, tesa a decurtare drasticamente o a passare in secondo piano il dato storico a favore, come scriveva lo stesso Bevilacqua, di «una pretesa assoluta autoreferenzialità, la quale non lascia più alcuno spazio fuori dei confini di una sofistica analisi del “farsi del poema” e del suo “materiale linguistico”».

Ciò che cambia dunque, nelle uscite di questi ultimi anni, oltre all’accessibilità di documenti e materiali che vent’anni fa non erano disponibili perché ancora secretati nell’archivio di Marbach, è la disponibilità a leggere tutta la parabola celaniana dentro la trama sottile del suo dialogo costante con il tempo, come accade nel bel saggio di Emmerich. Si prende atto della contraddizione profonda in cui la poesia di Celan era iscritta: la realtà di una lingua, afferma lo stesso Celan, che è «lingua madre e lingua degli assassini». Ma anche, come scrive Emmerich, la realtà di un paese, la Germania Federale, cui quella lingua apparteneva e in cui «migliaia di persone», e tra questi anche accademici e scrittori, «solo quindici o vent’anni prima avevano collaborato se non addirittura aderito al regime nazista.» Già nel 1946, in una lettera da Bucarest, Celan scriveva al critico svizzero Max Rychner che fu uno dei suoi massimi sostenitori: «Voglio dirle quanto sia difficile, da ebreo, scrivere poesie in lingua tedesca. Quando le mie poesie verranno pubblicate, arriveranno probabilmente anche in Germania e – mi lasci dire questa cosa raccapricciante – la mano che aprirà quel mio libro avrà forse stretto la mano dell’assassino di mia madre. Ma il mio destino è questo: scrivere poesie in lingua tedesca.»

Insomma si va, in questa seconda fase, verso quella che Michele Ranchetti all’epoca del suo lavoro sul libro di Ilana Shmueli Di’ che Gerusalemme è (Quodlibet 2003) definì una «ricostruzione degli elementi “realistici” all’origine dei versi», cosa che Ranchetti fino a quel momento aveva visto fare soltanto a due persone: Ilana, l’amica ritrovata di Czernowitz, che Celan andò a visitare in Israele poche settimane prima di gettarsi nella Senna e il critico ed ermeneuta Peter Szondi.

Pietra miliare dell’attuale cambio di paradigma, due colossali lavori: la nuova edizione delle poesie di Celan, con diversi inediti – Die Gedichte, neue kommentierte Ausgabe (Le poesie, nuova edizione commentata, Suhrkamp, 2018 pp. 1262, 78 €) e le 691 lettere che sono Etwas ganz und gar Persönliches Die Briefe 1934-1970 (Qualcosa di assolutamente personale, Le lettere 1934-1970, Suhrkamp, pp. 1285, 78 €). Entrambi i volumi analiticamente commentati da Barbara Wiedemann, comprendono 1300 pagine circa, di cui quasi la metà di commento. La Wiedemann, che da trent’anni si dedica con rigore impeccabile al lascito del poeta, di cui aveva già curato molti carteggi, tra i quali quello con Nelly Sachs, e l’altro più recente con Ingeborg Bachmann, ma anche con molti altri usciti nel corso degli anni, tra cui l’epistolario con Peter Szondi (che in Italia attende ancora un editore), quello imponente e anch’esso di grande interesse con la moglie, l’artista Gisèle Lestrange, e la corrispondenza di tutta una vita con il compagno di scuola e amico Gustav Chomed, fra gli altri. Di Barbara Wiedemann è anche l’edizione tedesca dei Microliti di cui Mondadori pubblica ora una nuova edizione (di cui si parla qui accanto).

Wiedemann raccoglie in ordine cronologico una scelta delle lettere scritte da Celan tra il 1934 e il 1970 a una gamma molto vasta di corrispondenti (quelle provenienti dai carteggi già editi sono poco più della metà), così da far emergere una sorta di «biografia interiore ed esteriore» dell’autore. Tratto fondamentale di questa biografia è il bisogno di muoversi tra le lingue, di tradurre. Molte lettere parlano di traduzioni, sia di quelle professionali (tra cui alcuni romanzi di Simenon) di cui Celan viveva nei primi anni a Parigi, sia di quelle poetiche (da Apollinaire a Valéry a Michaux, da Esenin a Mandel’stam). A Hans Magnus Enzensberger, che nel giugno del 1958 gli chiedeva delle poesie per la rivista “Akzente” risponde entusiasta: «Forse le posso proporre qualcosa di russo. Negli ultimi tempi ho infatti tradotto molto dal russo, soprattutto l’assolutamente straordinario Osip Mandel’stam.» Le lettere sono perlopiù in tedesco ma spesso anche in rumeno o in francese e qua e là di continuo si trovano frammenti di ebraico, di russo, a restituirci almeno in parte il crogiolo di lingue e culture in cui Celan aveva vissuto nella prima metà della vita.

Grazie alla scelta di Wiedemann possiamo così individuare percorsi trasversali scoprendo quali sono i temi che stanno al centro dell’interesse dell’autore in un determinato giro di mesi o di settimane, o seguire i singoli carteggi in senso cronologico e trovare corrispondenze tra lettere e poesie a distanza di molti anni. Nel 1938-39 ad esempio si passa dalla lettera ai funzionari della facoltà di medicina di Tours (dove Celan studiò per un anno), a quella nostalgica alla madre per il giorno della mamma, alla lettera a Gustav Chomed, in cui Celan racconta diffusamente della sua permanenza a Parigi e in cui accenna di essere passato all’andata in treno da Berlino appena prima della “notte dei cristalli”. Solo nel 1962 ricorderà quel viaggio nella poesia La Contrescarpe «Via Cracovia / sei arrivato alla stazione / di Anhalt / fluiva incontro ai tuoi sguardi un fumo /era già il fumo di domani.»

Il gruppo che appare più compatto è la rete dei corrispondenti ebrei alla quale appartengono, oltre ai parenti che vivono in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Israele, la maggior parte degli amici rimasti in Romania o nell’Unione Sovietica e poi conoscenti e colleghi da tutto il mondo. Alcuni di loro vengono originariamente dalla Germania o dall’Austria ma non tutti vi erano ritornati dopo la guerra. «Queste lettere hanno un carattere molto particolare» scrive Barbara Wiedemann «perché ci permettono di capire senza sforzo cose che altrimenti andrebbero spiegate faticosamente e che a volte proprio non si possono spiegare.»

C’è ad esempio Erich Einhorn, un amico di giovinezza di Celan a Czernowitz, che, dopo essere stato ufficiale nell’esercito sovietico, lavorò a Mosca dapprima come insegnante di lingue (rumeno e italiano) poi come traduttore. Celan gli scrive nel 1944, rientrato dai lavori forzati in, una lettera che è una conta dei morti e dei, la rievocazione di una comunità in parte scomparsa e in parte dispersa. Poi il carteggio si interrompe per molti anni e riprende nel 1962, sempre con una lettera di Celan: «Tutto è vicino e niente è dimenticato» scrive «benché da quattordici anni – o meglio: dal luglio 1948 – io viva a Parigi, sono, nei miei pensieri, spesso a casa e con gli amici di un tempo». Quella “casa [Heimat]” dove la poesia nasceva tra gli amici che si citavano l’un l’altro e parlavano in versi, al modo russo, è Czernowitz, un luogo scomparso, per lui, dalla carta geografica, «un luogo sommerso», che esiste però nell’anima, come scrive nel giugno 1960 lo stesso Celan rifiutando un omaggio al suo luogo d’origine, all’amico Milo Dor, scrittore e avvocato viennese, uno dei corrispondenti più assidui.

Il punto di svolta nella vita (e quindi nei carteggi), sono le accuse di plagio che la vedova del poeta rumeno Yvan Goll gli muove a partire dal 1956. «Domenica scorsa sono stato da Yvan Goll» scrive nel novembre 1949 all’amica Erica Illegg, conosciuta a Vienna. «Un vero scrittore. Un essere umano. Il primo che incontro da quando sono a Parigi. Un tempo scriveva in tedesco, ora quasi solo in francese. È alsaziano.»

Celan aveva conosciuto Goll, già molto malato, nel ’49, poco dopo il suo arrivo a Parigi. Gli aveva mostrato le sue poesie e Goll gli aveva detto, come scrive sempre nella lettera all’amica Erica: «Lei non è uno che scrive poesie, Lei è un poeta.» Il rapporto di fiducia si era stretto tanto in quei pochi mesi, che Celan divenne con la moglie di Goll, suo esecutore testamentario nonché traduttore delle ultime opere in francese. Nel mese di maggio del 1960 (c’erano già state delle avvisaglie nel 1953 e nel 1956) Claire Goll dà il via, con un articolo sul «Baubudenpoet», a un’accanita campagna denigratoria contro Celan, vincitore designato del premio Büchner. Le accuse si riferiscono al supposto plagio dalle sillogi in lingua francese di Yvan Goll che Celan stesso aveva tradotto.

A quella vicenda molto complessa che riporta in primo piano la questione della rimozione della shoah e dell’antisemitismo strisciante nella società tedesca, Barbara Wiedemann ha dedicato un libro parecchi anni fa, Paul Celan, Die Goll-Affäre Dokumente zu einer “Infamie” (Paul Celan, L’affare-Goll, documenti per un’”infamia”, Suhrkamp, 2000, pp. 926, 82 €).

A partire dal 1956, Celan mobilita tutta la sua rete di corrispondenti – tra i molti Heinrich Böll, Günter Grass, Max Frisch, René Char … – ma tutti o quasi finiscono per deluderlo, (se non altro transitoriamente, come il suo paladino Szondi), chi cercando di minimizzare chi, come Heinrich Böll o Alfred Andersch, «se ne lava le mani», scrive Celan al critico Walter Jens. «A causa delle reazioni, molte amicizie pluriennali vanno in pezzi», soprattutto quelle con i colleghi tedeschi, scrive Barbara Wiedemann nella postfazione alle lettere, «e non pochi credono di cogliere nelle esasperate risposte di Celan i segnali della malattia psichica».

«[…] Madre, loro tacciono. / Madre, loro sopportano che / la perfidia mi diffami. / Madre, nessuno / agli assassini ferma la voce. // Madre, loro scrivono poesie […]», scrive Celan in Bacca di lupo, il 21. 10. 1959. Il poeta non risponde agli attacchi sui giornali, lascia che intervengano per lui prima Peter Szondi e poi Klaus Demus, Ingeborg Bachmann e Marie Luise Kaschnitz. «C’è qualcosa che nessuna infamia mi può togliere», scrive il 9 agosto 1960 a Otto Pöggler, «è il mio tacere, il mio argomentato tacere.» E così, sulle barricate di questa incongrua battaglia, avviene l’estenuante addio alla lingua-madre e sembra avverarsi la profezia di Tubinga, gennaio quando Celan, l’«Hölderlin del ventesimo secolo» come lo definiva Nelly Sachs, scriveva: «Venisse, / venisse un uomo, / venisse un uomo al mondo, oggi, con / la barba di luce dei / patriarchi: potrebbe, / se parlasse di questo / tempo, lui / potrebbe / solo balbettare e balbettare […]»

Anna Ruchat

 

L’articolo è apparso con qualche modifica su “Alias” del 28 giugno 2020.

 

***

Si pubblica qui la traduzione di una poesia dal libro di Thomas Sparr sulla genesi della poesia di Paul Celan Fuga di morte appena pubblicato in Germania. Il volume ricostruisce le circostanze biografiche, storiche e geografiche in cui quei versi, così centrali per il Novecento europeo, sono nati. La poesia Fiocchi neri, precedente a Fuga di morte, “rielabora” quella che è presumibilmente l’unica lettera che la madre di Celan – deportata nel giugno del 1942 nel campo di Michailovka con il padre, e lì uccisa – inviò al figlio. Paul Celan nel 1943, quando scrisse questi versi, si trovava nel campo di lavoro di Rădăşeni:

 

Fiocchi neri

 

Neve è caduta, senza luce. Una luna

è già passata, o due, da che l’autunno sotto il saio del monaco

ha portato anche a me un messaggio, una foglia dalle discariche ucraine

 

«Pensa che inverna anche qui, per la millesima volta ora

nel paese, dove scorre il fiume più largo:

il sangue celestiale di Giacobbe, invidiato dalle scuri…

Oh, ghiaccio di un rossore ultraterreno – guada il suo caporale con tutta

la truppa dentro i soli oscurati… bambino, ah un telo

per avvolgermi dentro, quando scintillano gli elmett

quando la lastra di ghiaccio, quella rosata, si spacca,

quando polverizzate turbinano come neve le ossa

di tuo padre, sotto gli zoccoli scricchiola

il dolore del cedro…

Un telo, un piccolo telo anche stretto, che custodisco

ora che tu stai reimparando a piangere, al mio fianco

la stretta del mondo, che non inverdisce mai, bambino mio, al tuo bambino!»

 

Col sangue, madre, l’autunno mi ha spazzato via, la neve mi ha bruciato:

ho cercato il mio cuore, perché piangesse, ho trovato il soffio,

il soffio dell’estate,

era come te.

Mi è venuta una lacrima. Ho tessuto il piccolo telo.

 

A cura di Anna Ruchat
Apparso su ”Antinomie’